di Benni Galifi
Arriviamo a Leonforte, in provincia di Enna, alle ore 21.30 del venerdì 17 marzo. È un’eccezione, quella dell’anno corrente: gli altari di San Giuseppe, infatti, allestiti per tradizione il 18 – vigilia della festa del Santo – sono stati anticipati di un giorno poiché il 19 cade di domenica, domenica di Quaresima.
A guidarci è un’allegra compagnia di giovani amici di Assoro, piccolo paese – nonché gioiello normanno – arroccato su di un alta montagna a quattro km da Leonforte. I ragazzi sono muniti di una mappa che segna le vie e le contrade delle abitazioni nelle quali gli altari sono stati allestiti. Elena, la cui mamma ha partecipato alla cottura del cibo per uno degli altari, mi mostra la bellissima foto di una grande tavola attorno alla quale un gruppo cospicuo di donne sta friggendo – ciascuna sul proprio fornello – le tipiche polpette di finocchio che verranno offerte a chiunque visiterà l’altare. Ci mettiamo in macchina e dopo una decina di minuti di strada provinciale ci addentriamo in piena campagna sino a giungere in una strada stretta e non asfaltata.
A qualche metro, una piccola luminaria a forma di stella indica – e indicherà, di volta in volta – il luogo in cui è stato allestito l’artaru, l’altare. Ci ritroviamo in una tipica casa di campagna, al pianterreno, con un ampio spazio esterno. Davanti la porta d’ingresso un uomo sta suonando la fisarmonica, accompagnato da un paio di tamburelli. Bisogna attendere alcuni minuti prima di entrare in casa: sono in tanti a “firriari l’artara” – a fare il giro degli altari che sono allestiti in spazi privati (la stanza di un appartamento o un piccolo garage) e pertanto possono essere visitati da gruppi ristretti di persone accolte in casa poco alla volta.
Non facciamo in tempo a varcare la porta di accesso e a stupirci per la vista dell’artaru, che il suonatore di fisarmonica, fattosi largo tra la gente e postosi dinnanzi alla grande tavola imbandita, invita i partecipanti a fare silenzio: una donna – probabilmente la proprietaria di casa, ovvero colei che ha fatto prummisioni, “promessa”, “voto”, al Santo – inizia a intonare i versi di una raziunedda, tipica preghiera in dialetto leonfortese avente come protagonista il Patriarca e la Sacra Famiglia, sulle note di una“Vitti na crozza” arrangiata dalla fisarmonica e accompagnata dal ritmo dei tamburelli.
È nella prumissioni, il voto fatto al Santo, che risiede la genesi di questi meravigliosi altari. Riportiamo, a tal proposito, le parole di Fatima Giallomobardo: «La cena è la modalità di voto più prestigiosa. Uomini e donne possono farne promessa al Santo. Ci si può impegnare per una volta o per tutta la vita, per sé o i propri familiari. Una volta fatto il voto è necessario mantenerlo, se non si vuole dispiacere al Santo. Il voto che vincola al Patriarca per la richiesta di una grazia – la salute, il lavoro, una casa di proprietà – è certo la ragione emergente che spinge a organizzare le cene.». Nonostante la cena nasca da un atto devozionale – aggiunge la Giallombardo – essa finisce per essere «un augurio, un divertimento. È comu un matrimoniu, picchì si mmitanu tutti i parenti e l’amici».
Non è facile descrivere un artaru perché non si può dare un’idea esatta se non si è avuto modo di vederlo e “viverlo” in prima persona. Gli artara sono grandi tavolate di circa 8-10 metri quadri che occupano buona parte di una normale stanza. La misura delle tavolate varia a seconda dal numero di “santi” che consumeranno il pasto rituale, ed il numero è sancito dal voto fatto al Patriarca: da un minimo di 3 (Gesù, Giuseppe e Maria) a un massimo di 13, sempre e comunque in numero dispari.
Per la struttura portante vengono utilizzate tavole di legno sulle quali, un tempo, poggiavano i materassi, quando ancora non erano in uso le reti metalliche. A far da sfondo all’altare è il “cielo”: un vero e proprio apparato scenografico, prezioso baldacchino di pizzi, veli e bianche trapunte, per lo più opera della maestria di una donna anziana, esperta nella realizzazione. Le tavole vengono apparecchiate con candide tovaglie e il cibo disposto secondo criteri ben precisi, dettati da una rigida gerarchia: a esser posizionate per prime sono le cudduri, pani di grandi dimensioni artisticamente intrecciati e lavorati.
Le cudduri, diverse nella forma e ricoperte sulla superficie da piccoli simboli, “autentici capolavori di minuteria”, ci danno indicazioni su quali e quanti santi prenderanno posto a tavola. A tal proposito G. Algozino ( 2006) ce ne offre una descrizione dettagliata: «in ordine: a) per la cuddura do Signuri: colomba, mela e pera, carciofo, spighe di grano e grappoli d’uva, tre chiodi, corona di spine, tenaglia e martello, croce con l’iscrizione INRI, lenzuolo della deposizione, scala; b) per la cuddura da Madonna: mano con anello nuziale, foglia di niputedda (erba amara), rosa, colomba, grappoli d’uva e corona del rosario; c) per u vastuni di San Giusé ( bastone di San Giuseppe): barba, cufittedda con gli arnesi di lavoro del falegname, cioè l’ascia, la sega, il filo e il martello» e così via per Sant’Anna, San Gioacchino, per la Maddalena, per San Giovanni, San Pietro, etc etc.
Al centro dell’artaru e in posizione di rilievo, tra i drappi e le pieghe geometriche del cielo, svetta il quadro che ritrae il Patriarca. La composizione sembra richiamare l’immagine di un vero e proprio tabernacolo: al di sotto del quadro, infatti, “una serie di piani costituisce un rilievo come un altarino su cui si colloca una croce, una statuina, o vi si addossa il bastone di San Giuseppe” ( G.Nigrelli). Nel caso degli altari visitati, appena sotto l’effigie del Santo, campeggia la cuddura conosciuta dai leonfortesi col nome di spera (sfera): «caratteristico pane a forma di ostensorio istoriato con putti atropo-zoomorfi (recante al suo interno il santino del SS: Sacramento protetto da un vetro) posto in posizione elevata e preminente rispetto alle cudduri adagiate sui vari piani degradanti dell’altare». L’informazione datami da una delle anziane signore presenti all’artaru – «la spera non è fatta per essere mangiata» racconta «ma resta in custodia alla padrona di casa» – viene confermata, ancora una volta, da Algozino: «La spera – non destinata alla consumazione – conferisce all’altare una marcata significanza eucaristica, dimodoché tutto l’apparato “scenico” può essere riletto in chiave cristologico-eucaristica, appunto per la centralità visiva e spaziale dell’ostensorio».
La vista dell’artaru lascia l’osservatore a bocca aperta: è uno straripare di cibo disposto seguendo principi estetici che variano a seconda dalle scelte operate da chi lo allestisce, un tripudio di colori, un’abbondanza di viveri che non lascia vuoto nemmeno un brandello della tavola – colmo di pani di vario peso e dimensione (guasteddi, pupiddi, rametta), uno stupirsi per la bellezza della disposizione della frutta (prevalentemente arance e limoni), della verdura (cardi e finocchi), dei legumi ( fave e ceci ) e dei dolciumi vari (‘i spinci, ovvero polpette di mollica di pane fritte e ricoperte di zucchero, ma anche torroni e caramelle). In nessun altare è presente la carne che non viene consumata durante la Quaresima.
Quel che, a prima vista, potrebbe sembrare un mero ed esagerato eccesso di cibo – goduria per gli occhi ma non per il palato, poiché nessuno potrà mangiarne prima che banchettino i “santi” – disvela, in realtà, «il senso barocco del pieno, quel fatidico horror vacui che si tramuta in ordo abundantiae di chiara ascendenza orgiastica da non confondere con un vago spreco consumistico (G. A.)» e palesa, al contempo, l’inneggiare alla vita, alla rinascita del cosmo nell’imminente primavera, nonché l’implicito augurio che sia piena di cibo la tavola di chi si vota al Patriarca: «Animali, fiori, frutta e ortaggi sono rappresentati nei panuzzi che a centinaia ricoprono le cene. Il “creato” vi è amabilmente ricomposto, nelle forme più svariate, della flora e della fauna, ora in germoglio, ora in piena fioritura e crescita, nella stasi o nell’allusione al movimento (Giallombardo)».
La mattina del 18 marzo un sacerdote fa il giro del paese per benedire non solo gli artara ma altresì una grande quantità di pane ( anticamente lavorato a mano, come si fa con le cuddure, ma oggi acquistato dai fornai del paese) che verrà dato in dono a chiunque passerà a visitare l’altare. Una volta ricevuto il pane, non si deve mai dire grazie, ma, al massimo, per esser cortesi, “auguri”.
Conclusa la visita dell’altare e usciti di casa, ci ritroviamo davanti a grandi tavolate allestite all’esterno: alcuni “volontari” – parenti di chi ha fatto prummissioni o vicini di casa – servono ai visitatori vino rosso, fave e ceci bolliti, cardi panati e fritti, polpette di finocchio, olive nere e bianche e tutto il ben di Dio che si possa immaginare.
Visitati 5 altari – tre dei quali di 3 santi, uno di 5 e un altro, più grande, di 13) facciamo ritorno ad Assoro alle 2.30 del mattino con diverse buste colme di pane.
Il giorno seguente, poco prima di mezzogiorno, siamo nuovamente a Leonforte: alle 12 in punto, infatti, i “santi” prenderanno posto a tavola per la “cena”. Abbiamo scelto di assistere al pranzo offerto da Nunzio Leonforte, nel suo garage sito in via Taormina. Anticamente a consumare il pasto erano gli indigenti; tuttavia, «ormai non c’è più la povertà di una volta» mi racconta un’anziana signora dagli occhi piccoli e azzurri, per poi aggiungere «o pur essendoci persone in difficoltà economiche, per pudore, loro, non si espongono».
A impersonare la Sacra Famiglia, dunque, sono tre bambini: Gesù – che per primo verrà servito dalla padrona di casa – è il nipote del signor Nunzio. Il rituale viene aperto da una preghiera collettiva alla fine della quale u Signuri – mano destra sollevata, benedicente, e quella sinistra sul cuore – viene invitato a ripetere per tre volte una raziunedda che alterna i versi ad un reiterato segno della croce. Terminata l’orazione, i santi si siedono. Al piccolo Gesù viene tolta una scarpa: chinatosi, il padrone di casa immerge il piede del bambino in una bacinella piena d’acqua e dopo averlo asciugato lo bacia. La “lavanda dei piedi” – atta a render puro colui che sta per prender parte alla mensa celeste – prevede che il piede del Cristo venga baciato dagli altri santi (Maria, Giuseppe, e così via) e dai parenti del proprietario di casa.
I “santi”, finalmente, possono consumare il pasto. Dopo aver mangiato tre spicchi d’arancio, la padrona di casa – alla quale toccherà “spezzare il piatto”, ovvero assaggiare la pietanza prima di servirla a tavola – versa il vino nei bicchieri e spezza un pane offrendone un pezzo a Gesù, poi a Maria e a Giuseppe, e distribuendo la parte restante ai presenti. Servirà, successivamente, insalata e e due tipi diversi di pasta.
Tutto quel che resta del cibo dell’altare – fatta eccezione per la cuddure dei santi e per la spera, conservate con devozione dal proprietario di casa – verrà messo a disposizione di chi è stato presente alla “cena”, su di un tavolo appositamente apparecchiato fuori l’abitazione, per strada.
Alla realizzazione e alla riuscita di ogni splendido artaru hanno preso parte non solo i familiari di chi ha fatto prummisioni ma anche amici e vicini di casa: più di un mese per realizzarne la struttura e il “cielo”, più di duecento uomini a raccogliere nelle campagne cardi e finocchi, e tante, tantissime donne – le protagoniste ed artefici dell’allestimento di queste incredibili tavole – hanno dedicato giornate intere alla preparazione, a impastare, intrecciare e infornare il pane, a friggere verdure e bollire legumi, a ricamare organze e merletti, a raccogliere e disporre con premura e massima attenzione le vivande sulle tavole, e a condividere generosamente con la collettività la loro gioia per una grazia ricevuta tramutata in un vero e proprio paradiso di delizie gastronomiche.
Foto, in copertina e nel testo, di Benni Galifi