di Salvo Pistoia
In tutti questi anni di girovagare con la musica e intorno alla musica, e di teatrino, ambulanti e saltimbanchi ne ho visti passare. Poche le eccezioni e non necessariamente derivanti dal paese in cui viviamo. Sono stato sempre affascinato da una genialata che ti lasciasse senza parole, dove l’unica chance possibile sta nel riconoscere i meriti altrui.
In questi giorni, il teatrino della musica italiana ha incastonato un’altra gemma, dove tutti si dichiarano innocenti, di non sapere, e allo stesso tempo sono complici dell’eterno “volemose bene”. In fondo, l’unico proprietario dei concerti rimane il pubblico. Anche quando è raggirato davanti l’atteggiamento di tanti protagonisti.
Coincidenza volle, oltre a questa bagarre tipicamente italiota, che arrivi il saluto di un gran signore in punta di piedi, lasciando un bagaglio umano e culturale enorme.
Non starò qua a descrivere, quanto e cosa ha scritto nel suo itinerario artistico, Leonard Cohen. Molti, più accreditati del sottoscritto, lo stanno facendo.
Semplicemente, Cohen è l’arte di chi ha preferito raccontarsi, muovendosi tra esistenza e poesia, prendendo periodicamente scelte inusuali. Le assenze dai riflettori per vivere la propria introspezione fanno parte della biografia dell’artista canadese, un fine dicitore ispirato dalla sua analisi, che ha trovato vari proseliti nel mondo della canzone d’autore, Bob Dylan in prima fila.
“Un modello contemporaneo d’ispirazione”, cosi suona l’affermazione di Lou Reed, voce più che autorevole e che ha cantato arie e vicoli della notte.
Nelle abitudini di Cohen: i concerti sempre attesi, stracolmi in ogni latitudine geografica, come fossero pezzi di mosaico mancanti in un’opera planetaria. Si può dire un’opera pura? Penso di si.
Questa la magia della musica. Raccontarsi con cuore, sentimento, espressione e senza volerlo. Lasciare un segno indelebile nei confronti del tempo.