di Daniele Billitteri
Quella notte il mio pensiero era che abitavo al quinto piano e ascensore non ce n’era. Ora, non è conto che io mi dovevo preoccupare dell’ascensore perché ero un saittuni e cinque piani me li macinavo ca pareva un razzo come quelli di Da La Terra e La Luna di Giulio Verne. Il problema non era il mio ma quello dei morti. Ai morti quei cinque piani magari ci avrebbero aggreuppato. Niente niente, che decidevano di non acchianare? Poi specialmente di notte.
E la sera prima c’era stato pure malotempo freddoso. La notte non era una notte qualsiasi visto che era quella che c’è tra il Primo e il due di novembre. Il primo è Ognissanti e è festivo, il due non è festivo di calendario ma per noi picciutteddi è festa sicuro. Una delle più importanti. Con tutto che è il giorno dell’anno in cui si ricordano i parenti morti.
Ora, dovete sapere che la maggior parte dei miei parenti era viva. Qualcuno un poco ammaccato attipo il nonno dalla latata paterna che aveva avuto l’ispis e aveva paralizzato. Altri erano perfetti come la Nonna materna, Mimì, e suo marito, il mitico Nonno Peppino. Ora, secondo le regole, a questi, in quanto vivi non ci attoccava di appresentarisi coi regali come vuole la tradizione.
Non restava che la nonna Angiola, madre di mio padre, morta quando lui aveva solo 13 anni e che quindi io conoscevo solo di fotografia. Me la ricordo con una faccia simpatica, un poco malinconica, la pelle liscia e un po’ di occhiaie. Forse al tempo di quella fotografia già non stava tanto bene. E comunque era morta e tutti i miei pensieri e ragionamenti erano concentrati su di lei in mancanza dei “parenti di seconda fascia”, zii caduti in guerra, lontani cugini dei miei nonni. Tutti “occupati” nel senso che ognuno di questi aveva i suoi nipoti quindi non c’era niente di sperimentare.
Dunque potevo sperare solo nella nonna Angiola. Ma ero preoccupato. A parte la situazione del quinto piano a piedi, lei lo sapeva l’indirizzo di dove abitavo? Il palazzo era stato costruito che io già ero nato e ai tempi della nonna Angiola in quel posto c’erano, mi pare, giardini e una stradina attipo di campagna che portava in via Archirafi dove c’era una parte dell’Università. Ma la porcupazione più grande era che questa nonna era vissuta in un periodo dove non c’erano tutti i giocattoli che mi piacevano di più. Quindi facile che sbagliava e mi portava, che so, una scatola di matite colorate, qualche aeroplanino di latta, Mi perseguitava il detto: “Chi ti purtaro i morti?” “Un pupo cu l’anchi torti”.
Così io che ancora non sapevo scrivere, ci domandai a mia sorella che era un anno più grande, di scrivere lei la lettera alla nonna Angiola così come ci dicevo io.
Di cui mi asssittai e cominciai a dettare. “Cara nonna Angiola. Come stai? Lo so che a un morto non si domanda ma io non ti ho conosciuta anche se sono sicuro che sei in Paradiso. Ma metti che per cose che non so, tu sei di passaggio al Purgatorio? Spero di no. E com’è la da te? Qua sono cambiate tante cose. Ora ci sono tante macchine, i semafori che sono lampadine che si addumano e si astutano, tutta la città è illuminata. Il nonno Carmelo, come sicuramente sai, si è sposato di nuovo e la nonna Silvia non è tanto affettuosa e poi cucina malissimo e fa la pasta con l’astratto che lo lascia pezzi pezzi e a me mi viene, con rispetto parlando e levando a chi mangia, di vomitare.”
“Ma ora veniamo alla questione della festa dei Morti. Io ti volevo pregare di portarmi il Meccano, che ai tempi tuoi non c’era. E’ una cosa bellissima che serve a costruire cose che uno pure si insegna un mestiere. Quindi è pure utile come la scuola. Poi vorrei il moschettino. Ti ricordi quando c’era Mussolini che affacciava alla finestra e faceva vedere un libro e un fucile? E diceva: Libro e moschetto fascista perfetto. Ecco, a me mi piace quel fucile. Ma non quello vero. So pure come si chiama: Moschetto 91/38 e hanno fabbricato pure un modello giocattolo che, mi ha detto mio padre, era quello che usavano per farci fare il soldato pure ai bambini della Balilla (che non so perché si chiamavano così). E ci mettevano pure la baionetta di legno”.
“Mia sorella Diana vorrebbe invece la cucina economica in miniatura con tutte le padelle e pignate perché così può cucinare per le bambole. E ricordati nonnina non ti fare imbrogliare che ti danno il modello vecchio a carbone. Ora le cucine sono a gas. Grazie. Non ti dico a presto rivederci perché io prima devo diventare vecchio e poi ti raggiungo”.
La lettera parti una simanata prima del 2 novembre. Nel frattempo io stavo attento alle scale. Se vedevo che a qualcuno, salendo, ci cadeva qualche cosa, io l’andavo subito a stuiare. Poi nell’ultimo pianerottolo ci avevo impiccicato un poco di fogli di carta vetrata per non sciddicare.
La sera del Primo, prima di andarmi a coricare, mi feci il giro della casa e controllavi che le finestre erano chiuse ma senza il fermo perché che ne sapevo io se i morti potevano volare? Non doveva mancare per me che trovavano le finestra attangate. Poi preparavi una bella scatola e la misi sotto il mio letto.
Naturalmente non riuscivo a prendere sonno allora mia matre mi disse che mi avrebbe dato due cucchiaini di una medicina dolce che serviva per dormire e si chiamava Ninnaol. Solo molti anni dopo lei mi spiegò che era acqua con lo zucchero. Ma quella notte, miracolosamente, mi fece addummiscere.
L’indomani di prima mattina ero come un grillo che andava satariannu ma la cesta sotto il letto non c’era. Mi venne di chiancere ma prima di fare sta malafiura mi fici il giro di tutta la casa e finalmente vitti la scatola ammucciata nello stanzino di sbarazzo.
E c’era tutto! C’era la scatolona del Meccano. Era la più grande perché ce n’erano di tante misure. E c’era il moschetto che pareva quello vero se non fosse che era più piccolo. Per prima cosa aprivi il Meccano per controllare che c’erano le chiavette, le viti e i bulloni poi tutte le aste e le piattaforme coi buchi. Era tutto rosso blu e argento. Bellissimo. E c’era tutto.
Allora mi armai del mio moschetto e mi precipitai in mezzo alla strada dove intento aveva scoppiato una guerra. C’erano un poco di picciutteddi con le bicigrette nuove nuove che si partivano alle corse. Opure quelli coi pattioni a rotelle. C’erano quelli coi fucili di cauboy o quelli coi mitra miricani o quelli dei gangister col caricatore a ruota. C’erano quelli con le spade di tutti i tempi: i romani, i turchi, i cavalieri della tavola rotonda, i crociati, i moschettieri e i samurai. In ogni piazze c’era una partita di pallone dove, oltre al pallone, nuovi erano magliettine del Palermo, dell’Inter o del Milan. Ma di più della Juventus.,.. calzettoni e scarpini coi tacchetti.
Le femine invece erano tutte a casa a vestire le bambole nuove. O a consare letti piccoli nelle camere da letto giocattolo. Mia sorella, già allora, cucinava. Che ci preparasti alla bambola? Pasta col forno, spitini e cassata. Era l’inizio di una lunga carriera.
Tutto cessava col calar del sole. Io tornavo a casa pronto alle costruzioni ma venivo spedito a dormire perché l’indomani c’era la scuola. Tutti si arritiravano. Pure i morti che a guardarci si erano fatti sicuramente quattro risate. Grazie nonnina mia sconosciuta.
In copertina, Pupi di Zucchero a Palermo.
Una DE LI ZIA
Grazie per aver condiviso in maniera così vivida i tuoi ricordi. Bellissimo brano.
Bellissimo, Daniele. Bellissimo.