di Pasquale Hamel
“Pizzo e Mattaliani appena i vidi assugliaci i cani”[1] , questo detto, abbastanza colorito ma tutt’altro che simpatico, circolava da tempo immemorabile a Porto Empedocle per mettere in guardia chi aveva a che fare con persone che portavano questi cognomi. Non sono riuscito a sapere l’origine di questa cattiva reputazione, tuttavia, né a mia memoria risultano episodi o vicende per le quali potesse essere giustificata questa brutta fama.
A queste famiglie di brutta nomea apparteneva il poco simpatico Mariano Saccar che, per molti anni, ha gestito, con un atteggiamento non sempre benevolo verso gli utenti, la locale sezione di un Ufficio dello Stato.
Si trattava di un personaggio sanguigno, con la risposta facile e sicuramente carico di tanto retro pensiero da renderlo, agli occhi della gente, inaffidabile. Pur esternando le forme del vecchio signore era soprattutto un po’ attaccabrighe e la gente cercava di evitarlo con la giustificazione che si trattava di un bel tipino “da prendere con la canna”, come raccomandava un vecchio proverbio.
Il nostro, come un po’ tutti quelli che vivevano in quel denso complesso abitativo che un tempo era stato solo il “Caricatore di Girgenti” e che prima dell’arrivo dei sabaudi – grazie alla munificenza del re di Napoli – era assurto alla dignità di comune autonomo, era anche affetto dalla malattia della politica anche perché, non bisogna dimenticarlo, la politica nella nostra terra è sempre stata strumento di promozione sociale oltreché, in molte occasioni, di promozione economica.
Questa passionaccia per la politica, nel caso in specie un po’ pelosa, un giorno gli fece fare quel passo che da tempo aspirava a fare. Approfittando, infatti, del rinnovo dell’amministrazione locale decise che fosse arrivato il tempo di scendere in campo e che, pertanto, avrebbe partecipato alla locale competizione elettorale. Per partecipare era però necessario entrare in un partito, cosa non facile anche se di partiti, tutti organizzati anche sul territorio, ce n’erano tanti, qualcuno magari più affollato degli altri e qualcuno meno.
Il nostro, come dicono da noi, si “tirò u paru e u sparu”, cioè valutò quale potesse essere quello che gli poteva garantire aiuto ma che, nello stesso tempo, lo potesse accogliere come leader indiscusso. La scelta cadde su un piccolo partito che, localmente, non aveva avuto mai rappresentanti al palazzo di città e che, a quanto dicevano, disponeva di floride risorse economiche buone a coprire le sue spese elettorali e magari qualcosa di più.
Detto fatto. Organizzò, naturalmente a spese del partito, un piccolo comitato elettorale e iniziò quella che un tempo era la defatigante ricerca del voto. Nel caso in specie, doppiamente defatigante visto che, ubbidendo all’ammonizione di cui abbiamo scritto, molte porte restavano volutamente chiuse alla sua persona.
La fatica non lo piegò. In quelle settimane che separavano dal voto, considerato il valore della posta in gioco, non si risparmiò impegnandosi con tutte le sue forze e con quelle, abbastanza sostanziose, del partito. E siccome, come recitava l’antico adagio latino gutta cavat lapidem, qualche risultato cominciò a coglierlo. Parecchie persone, convinte da promesse o unte dal denaro, si decisero a votarlo. Quelle promesse di consenso, il nostro, le considerava affidabili visto che, con puntigliosità, le segnava in un bel quadernone che aveva scroccato ad una ditta che aveva a che fare con il suo ufficio. Lentamente, ma inesorabilmente, i numeri crescevano e, a poche settimane dal voto, aveva segnato tanti consensi che ormai era certo della riuscita. Tanto certo che non ebbe scrupoli a manifestare arroganza e disprezzo verso gli altri e affermava a gran voce “c’avrebbe pigliato”, cioè che sarebbe stato eletto.
Arrivò il giorno del voto e cominciò ad aggirarsi da un seggio elettorale all’altro, sentendosi ripetere che, visti i futuri consensi che aveva segnato nel registro, ne aveva “con le coffe”, e che senza dubbio lo si vedeva già inquilino del palazzo di città. In quelle ore inquiete, la gente che l’incontrava fra lo sfottente e l’augurale, gli gridava appresso “don Marianù, ci piglia, ci piglia !”. “Ci piglia!” divenne il grido di battaglia che anticipava la sua probabile vittoria.
Ed in effetti, per dirla nel vernacolo, “don Marinù ci pigliò, ci pigliò una gran mala figura”, di tutti quei voti promessi non ne corrisposero più di una ventina, quelli stretti di famiglia e perfino non tutti, per cui non si poté neppure dire che “per un punto Martin perse la cappa” , di punti ne erano proprio mancati tanti per potersi sedere in una poltrona del palazzo. Si può pensare, dunque, che i compaesani avessero fatto tesoro del monito iniziale e non fidandosi avevano ritenuto opportuno “assugliari i cani” al poveraccio grido di “don Marinù ci piglia”.
[1] I nomi citati non corrispondono a quelli reali