di Anna Fici
Maredolce da oggi ospiterà una mia Photogallery: il mio sguardo, prevalentemente su Palermo; occasionalmente, su altre realtà rilevanti, geograficamente o culturalmente a noi vicine.
Desidero quindi dare l’avvio a questa nuova forma di collaborazione, basata sulla fotografia, con un vecchio lavoro che attesta il mio affetto e il mio legame con la città. Un lavoro che risale al 2002 ma che è ancora attuale: racconta infatti di Ballarò, il noto mercato inserito nel quartiere dell’Albergheria; una delle zone più ricche e più povere allo stesso tempo, che ricca e povera continua ad essere, anche oggi in virtù della crisi. Ricca certo non di risorse economiche e di agi. Direi piuttosto di varia umanità, di etnie, di odori e colori: spesso citazioni nostalgiche di vite lontane nello spazio (quelle degli immigrati lontani da casa) e nel tempo (quelle dei palermitani che li possono ritrovare un antico odore di milinciane comu li faciva me nanna).
A distanza di quasi venti anni molte cose sono cambiate e, allo stesso tempo, molte altre sono rimaste immutate. L’afflusso turistico a questo mercato, fino a prima della pandemia, era decisamente aumentato mentre la Vucciria, un tempo più famosa, è stata sacrificata alla movida ed ha cambiato identità e funzioni. Una movida che al momento non c’è, ma che probabilmente tornerebbe quando la pandemia sarà finita.
Nei diciotto anni tra il 2002 e il 2020, Ballarò ha avuto tutto il tempo di diventare uno stereotipo assoluto della fotografia turistica e amatoriale. Tutti i corsi di fotografia terminano, o terminavano, classicamente con una passeggiata fotografica a Ballarò; e tutti i turisti scattano a profusione e con ogni mezzo. Fino al 2019, ogni mattina il mercato si svegliava, si stiracchiava, sbadigliava e andava in scena. Succede anche oggi, in avanzata pandemia, sia pure con meno intensità. Ma io forse non potrei più fotografare a Ballarò. Tutto sarebbe, comunque, un déjà-vu. Eppure trovo ancora quando torno a passeggiarvi che la recita non falsifica la sofferenza, l’allegria, la solidarietà, la rabbia della sua gente.
Le facce di Ballarò, un testo per ricordare
Nel 2002, quando presentai queste immagini all’Internazionale di Fotografia di Solighetto (Tv), dove vinsero, vi aggiunsi questo testo:
“Questi ritratti nascono da una indagine che ormai conduco da circa tre anni e si colloca in un contesto di studio che la sociologia definisce ‘osservazione partecipante’, all’interno del quartiere-mercato di Ballarò.
Vucciria, Capo, Ballarò e Borgo Vecchio sono i quattro mercati di Palermo. Tutti e quattro sono di origine araba (la dominazione araba in Sicilia risale al X secolo o, più precisamente, dall’ 827 al 1060). Ma Ballarò, da “bahlara”, ovverosia confusione, è il meno noto ed il più autenticamente popolare.
Vista da Ballarò, Palermo – una metropoli a tutti gli effetti – appare ancora poco più che una casbah. Dopo aver prodotto diverse serie di immagini su questo mercato e sugli stili di vita della sua gente, partendo da un’attenzione sociologica, quindi più descrittiva ed articolata, ho via via cercato una più efficace sintesi fotografica con l’obiettivo di indagare e narrare iconicamente una condizione di vita solo indirettamente. Ossia attraverso i volti dei suoi protagonisti osservati nel quotidiano. Su di loro aggiungo soltanto poche righe, che possono guidare la comprensione di chi è geograficamente e culturalmente lontano da questi nostri contesti.
Vivono da ambulanti, abusivi e non, e da robivecchi. In origine, Ballarò era un mercato esclusivamente di generi alimentari; oggi è il punto di ritrovo per tutti coloro che raccolgono di notte abiti dimessi ed oggetti di ogni genere dai cassonetti della spazzatura, per poi rivenderli in piazza l’indomani. Vi si trovano le cose più assurde: pezzi di filo elettrico, vecchi televisori, funzionanti e non, biglietti usati dell’autobus risalenti agli anni Settanta e persino agendine telefoniche vecchissime, con i numeri scritti da chissà chi…. I frequentatori abituali sono sia i collezionisti che, soprattutto, i pensionati, i disoccupati e i poveracci. Coloro che non possono acquistare il nuovo e che affrontano anche molta strada per l’offerta conveniente di questo mercato, rispetto ai negozi e agli altri mercati cittadini.
Ballarò è un luogo a tinte forti, in cui la morte ti urla dalle bocche spalancate dei pesci e dalle verdure marce per terra del giorno prima. Ma è anche un formicaio di persone operose, che trascorrono la giornata in strada per vendere, si e no, ventimila lire (oggi una decina di euro) di aglio e prezzemolo; o passano la notte fuori a cercare tra la spazzatura dei quartieri “bene”. Dove, se non a Ballarò, si trova gente disposta a questo, quando sarebbe tanto facile e comodo entrare a far parte della manovalanza mafiosa? Ovviamente c’è anche quella, lì come altrove.
Ballarò è un luogo dove l’umanità puzza, per il caldo e la calca, e dove, come in nessun altro posto al mondo, ti ricordi che la vita e la morte sono dei “fatti fisici”.
Ho cercato di rendere con la fotografia i solchi che la vita ha scavato sulle facce di queste persone, senza particolare enfasi; solchi che parlano di miseria, ma anche di passione vitale. Una passione che fa accettare agli abitanti di Ballarò, in buona parte pur di mantenersi onesti – magari abusivi ma onesti – cose che pochi uomini del progredito Occidente, nel 2002, accetterebbero”.