di Gabriele Bonafede
Tre libri deliziosi quanto rivelatori: “Io non ci volevo venire”, “La strategia dell’opossum” e “La boffa allo scecco”. Consiglio a tutti di leggerli, possibilmente nell’ordine di pubblicazione. Tre storie, una storia, un percorso che descrive Palermo così com’è. Il tutto con un plot sempre geniale e ironico a un tempo. E nel rivelare gli intimi meccanismi della mentalità mafiosa di taluni quartieri di Palermo, Alajmo riesce pure a divertire – e molto – il lettore.
Il protagonista, Giovà, è un investigatore molto particolare: un metronotte buono a nulla, vittima della sua stessa famiglia fortemente matriarcale, immersa nel grigio mondo pervaso dalla mentalità mafiosa di una nota borgata della Palermo popolare: Partanna-Mondello. La vera e propria “Palermo beneomale”, dove la stratificazione sociale mette salomonicamente vicini i poveri e i più facoltosi a poche decine di metri gli uni dagli altri.
Giovà, il quacquaraquà e la sesta categoria degli uomini secondo Sciascia
Come già detto in occasione del primo dei tre gialli su Giovà, Alajmo aggiunge alle cinque categorie degli uomini descritti da Sciascia una sesta categoria, nota a qualsiasi siciliano: l’”aranci ’n tierra”. Ovvero, colui il quale non vale nemmeno lo sforzo per essere raccolto e venduto al macero. Perché “vale” meno ancora dell’ultima ruota del carro, ossia ancora meno del quacquaraquà. Giovà è implicitamente un’”aranci ‘n tierra” fin dal primo episodio. Lo diventa anche esplicitamente, con tale epiteto, nel terzo: “La boffa allo scecco”.
Abituati a leggere gialli che prevedono grandi uomini, o grandi donne, capaci di risolvere i misteri più complicati, Giovà è un investigatore che non vorrebbe risolvere alcun mistero. Vorrebbe solo dormire e mangiare. Tutto è, tranne il tombeur de femme o “superuomo” dalla morale integerrima, ormai visto e rivisto fino alla noia nei gialli nostrani. Meno che mai Giovà è capace, come un Rocco Schiavone, di unire furbizia, intelligenza e un pizzico di cialtroneria ai limiti della legalità, pur di risolvere i casi ai quali deve dare risposta.
Come per Schiavone, i casi da risolvere si presentano quali grandi e pericolose camurrie. Ossia, scocciature da evitare il più possibile. Ma contrariamente al burbero vicequestore di Manzini, il metronotte di Alajmo non ha alcun dovere per risolvere i casi criminali se non quello di continuare a sopravvivere in pace e lontano dai guai.
Paradossi pirandelliani
I plot dei tre gialli – finora tre – con Giovà protagonista, sono dunque pirandelliani fin dalle premesse. Tanto più che lo stesso lavoro di metronotte che permette al protagonista di sbarcare il lunario, altro non è che un paradossale impiglio in un mondo palermitano preferibilmente da evitare… E non vado oltre su questo, perché scoprirlo nel primo racconto “Io non ci volevo venire” è uno spasso da non perdere.
In “La boffa allo scecco”, Alajmo conclude in qualche modo un ciclo che riporta in Italia una letteratura particolarmente ispirata ai maggiori pregi di Sciascia e Pirandello. E cioè quelli che consentono di descrivere in maniera dettagliata, ironica, quasi cinica e persino chirurgica, i più reconditi meccanismi della comunicazione e dell’agire in un ambiente siciliano. Di più, in un ambiente fortemente dominato dalla presenza della mafia. Persino nel rapportarsi tra individui attraverso la “migliore” parola: quella che in Sicilia è definita “la parola che non si dice”. Come in Pirandello, Alajmo approfondisce anche il tema dell’abito cucito addosso ai personaggi dalla società. E lo fa nel tempo di oggi, anziché in quello di un secolo fa.
Giovà tra storia, Gattopardo e “architettura” del “non finito siciliano”
Il non detto, e anche il pensiero tra parentesi espresso da gesti, occhiate, movimenti, atteggiamenti, è elevato ad asciutta letteratura del dire senza dire. Giuseppe Tomasi di Lampedusa avrebbe certamente complimentato Alajmo quale “scrittore magro”. Capace, cioè, di fare immaginare molto con poche parole e senza dilungarsi in “grasse” descrizioni o passaggi narrativi.
La descrizione dell’ambiente urbano è efficace perché affidata allo stesso concetto di “non detto”. Tanto che lo scrittore si consegna a una sintetica definizione dell’edilizia siciliana (che ho avuto personalmente la ventura di utilizzare (*) nel lontano 1993): il “non-finito siciliano”. Quell’edilizia, pubblica o privata, che “gode” della sua mancanza di rifinizione: senza intonaco, se va bene, oppure senza alcune parti mai terminate. O, peggio, rimasta solo a livello di “rustico” composto da nudi pilastri e solai. Una forma di “arte”, insomma, che tutto è tranne il non-finito michelangiolesco…
Ecco, l’edilizia abusiva o l’opera pubblica mai terminata, entrano di diritto nell’ironica descrizione di Alajmo a proposito del mondo socio-politico italiano, e siciliano in particolare. Confermando una graffiante e persino corrosiva satira nei confronti della società e della politica spicciola di oggi. Dove un mafiosetto locale può persino pregiarsi, sia pure temporaneamente, di regalare “premi antimafia” …
Grazie a Roberto Alajmo che ha scritto una delle saghe più divertenti e drammaticamente reali tra quelle pubblicate in Italia negli ultimi anni. Grazie a Sellerio che lo ha pubblicato.
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Riferimenti bibliografici sul “non-finito siciliano”:
(*) In La pianificazione in Sicilia. Politica economica, urbanistica e territorio (1944-1990), di Gabriele Bonafede, edizioni La Zisa editore 1997 (tesi di dottorato del 1993), pagina 188.