di Giovanni Rosciglione
Era il 24 febbraio del 1929 (VIII E.F.) e mio nonno, nella foto, in rappresentanza del Comune, faceva strada al Cardinale Luigi Lavitrano, campano di 55 anni, che fu anche Prefetto della Congregazione della Sacra Rota. Morto nel 1950 riposa in una tomba col suo busto e una lapide con su inciso “Labor et dolor vita mea fuit”. Non si sa perché.
La foto è una Cartolina Postale a firma, con pronome anteposto, di tale Palmeri Federico. Ovviamente i fotografo incaricato dal Comune.
Il mio omonimo nonno fu Segretario Generale del Comune dal 1° settembre 1925 al 1° giugno 1935, accanto al Commissario Domenico Delli Santi sino 26 aprile 1925, al Professor Salvatore Di Marzo, prima Prosindaco sino al 24 dicembre 1926 e poi Podestà sino al 21 settembre 1929, quando la carica fascista fu assegnata al Principe Michele Spadafora, seguito dal Commissario Giuseppe Borrelli sino al novembre del 1934, quando si insediò come Podestà il Professor Giuseppe Noto Sardegna. Fu a quel punto che mio nonno, a 60 anni, si dimise dagli incarichi di Segretario Generale del Comune e del Consorzio Portuale di Palermo.
Mia madre conservò a lungo la corrispondenza che mio nonno ebbe con Salvatore Di Marzo e con Noto Sardegna, nella quale si lamentava dei torti subiti e degli ostacoli interposti alla sua attività amministrativa, attribuendone la colpa alle distorsioni funzionali che l’introduzione della figura del Podestà, con i suoi estesi poteri direttamente collegati al Partito Fascista, aveva di fatto stravolto la funzionalità amministrativa del Comune.
I toni verso Di Marzo erano amichevoli e manifestavano solo delusione. Verso Noto Sardegna invece c’era una, sia pur educata, invettiva contro la fascistizzazione del Comune, che rischiava di vanificare il prevalere dell’interesse generale nelle scelte operative dell’Amministrazione.
Intendiamoci: mio nonno, per quel che so, non intese mai quel suo gesto di rifiuto come una manifestazione di antifascismo militante. Basti pensare che trovai ancora nel suo armadio la divisa in orbace con fez e stivali di ordinanza, che mia nonna mi assicurò avere indossati solo una volta perché “era ridicola!”, diceva. E, d’altro canto, il fascismo in Sicilia fu “siciliano”. Spesso esente, cioè, sia dalla violenza brutale e totalitaria con cui si espresse in altre parti d’Italia, come pure rinunciatario rispetto all’obiettivo di dare agli italiani una forte identità nazionale e una disciplina civile. Era un fascismo “all’acqua di rosa”, per così dire, come del resto anche tutti i partiti del dopoguerra nella loro “colorazione” siciliana.
La mia famiglia era monarchica, votò il PNM di Covelli sino al 1963, quando, divenuto io maggiorenne (allora 21 anni) votai per la prima volta Pci, scelta alla quale con grande disinvoltura si adeguarono madre, nonna e zii. Suo figlio, Enrico (mio padre), si arruolò nell’esercito nel 1940, e mio nonno si espresse sempre con grande rispetto per le autorità manifestando passione per le sorti della città, sino alla sua scomparsa nel 1943.
Non un eroe quindi, quello che nella foto accompagna il sacrarotista campano. Ma soltanto, e più modestamente, un esemplare di una razza in via d’estinzione dalle nostre parti: un “civil servant”. In altri termini un servitore dello Stato, un custode del benessere pubblico, un appassionato ante litteram dell’etica della responsabilità e del dovere civico.
E, purtroppo, posso testimoniarlo dalle modeste dimensioni del patrimonio ereditario.
Era, Palermo, ancora con il ricordo della Felicità, con il Liberty, con le strade nuove, con scuole nuove. Avevamo raggiunto i 400.000 abitanti dai 300.000 di due decenni prima , il Teatro Massimo, il grande turismo raffinato, una piccola speranza di futuro.
Ed avevamo ancora il tram.
bEI RICORDI DI UN TEMPO CHE FU QUANDO ANCORA C’ERANO VALORI FORTI E UOMINI VERI