L’aggettivo “tecnica” alla recessione ormai certificata dall’Istat potrebbe durare molto poco. Si rischia di entrare presto in recessione vera e propria. Ecco perché
di Gabriele Bonafede
Contrariamente ai maggiori media italiani, ho volutamente evitato di aggiungere nel titolo l’aggettivo “tecnica” alla recessione ormai certificata dall’Istat in Italia. Ecco perché.
Con il termine “recessione” si indica una situazione di arretramento o diminuzione dell’attività produttiva, laddove l’attività produttiva è misurata fondamentalmente dal PIL (Prodotto interno lordo).
La recessione tecnica è riconosciuta come tale, dal mondo degli economisti, quando il PIL reale diminuisce per almeno due trimestri consecutivi.
Oggi molti giornali hanno pubblicato i dati provvisori dell’Istat per l’ultimo trimestre del 2018 che segnalano un altro trimestre con una diminuzione del PIL per frazioni di punti percentuale. La recessione tecnica, con due trimestri negativi sebbene di una frazione di punto percentuale, è ormai un fatto acquisito.
Si arriverebbe alla recessione economica se la variazione del PIL rispetto all’anno precedente sarà negativa di almeno un punto percentuale. Tuttavia le prospettive dell’economia italiana, vista la manovra varata da questo governo e il contesto nella quale è inserita, non fanno pensare a un recupero del PIL ma piuttosto ad un ulteriore peggioramento.
La manovra in se stessa è già posta in termini sbagliati. Prevede infatti un aumento e non una diminuzione del Pil per l’anno in corso, e per giunta dell’ordine del +1,5%. La tendenza, ormai chiara con due trimestri negativi, va da tutt’altra parte.
Con tutto ciò che ne consegue, ad esempio in termini di clausole di salvaguardia e di impatto nel mondo finanziario pubblico e privato. Non a caso lo spread rimane comunque intorno a 250 punti ormai da mesi. Un campanello d’allarme che continua a squillare, meno forte di quando è arrivato a oltre 300, ma rimane pur sempre a un livello poco sostenibile se per un tempo prolungato.
Ma quello che fa più preoccupare, a mio avviso, è il contesto nazionale e internazionale. Spero di sbagliarmi, ma ci sono infatti molti elementi che suggeriscono, allo stato attuale, un peggioramento dell’economia italiana ben maggiore. La gran parte di questi elementi sono direttamente e indirettamente legati all’approccio delle piattaforme politiche di chi ha vinto le elezioni il 4 marzo e al momento governa il Paese. E all’azione di governo nel suo complesso.
In primo luogo, molti lo dimenticano, c’è il rischio Brexit che si avvicina sempre più, per giunta con la Brexit-no deal che diventa sempre più vicina.
Sebbene l’impatto negativo della Brexit senza accordo con l’UE sia previsto soprattutto per l’economia del Regno Unito, questo è talmente negativo da avere un impatto anche per l’Italia. Per due motivi fondamentali. Uno è nella riduzione del commercio estero con il Regno Unito, e si tratta di un commercio di svariate de decine di miliardi di euro che sarà certamente in contrazione.
L’altro nell’impreparazione dell’Italia a questo shock negativo senza nemmeno avere organizzato qualcosa per raccogliere per lo meno quei capitali che hanno iniziato a scappare dal Regno Unito e si precipitano verso l’area dell’Unione Europea. Qui l’Italia è completamente incapace di essere competitiva rispetto a Paesi come Francia, Germania e Olanda, e persino la Spagna, nell’attrarre eventuali investimenti.
Il governo attuale non ha fatto nulla nell’uno e nell’altro caso. Non ha organizzato un sistema di informazione sulle nuove regole per le imprese che dovranno esportare nel Regno Unito dopo la Brexit. Non ha cercato di attrarre capitali, laddove ce ne fosse stata la possibilità. Anzi, ha flirtato con i lugubri personaggi che hanno realizzato il disastro della Brexit nel Regno Unito.
D’altronde, la Brexit è la punta dell’iceberg delle nuove tendenze ultranazionaliste che propagandano chiusure commerciali e monete nazionali. Esattamente quello che hanno propagandato nelle proprie piattaforme elettorali Lega e Cinque Stelle. A queste, si aggiunge una tendenza a litigare con i principali partner commerciali dell’Italia, come Francia e Germania, su motivi quanto meno di lana caprina.
La realtà, purtroppo, è che si è in una fase di aumento dei dazi in tutto il mondo, soprattutto a causa delle tendenze tracciate dalla Brexit e dalle politiche suicide di Trump per gli Usa. Tutte cose, per altro, sostenute “culturalmente” dalla follia dell’attuale governo italiano.
Il Pil italiano, infatti, è sostenuto al momento dall’export. Principalmente dall’export e non dalla domanda interna. Vero, la manovra ha l’intenzione di sostenere la domanda interna ad esempio con il pasticciato RdC. Ma è una misura che, oltre ad essere puramente assistenzialista, è anche insostenibile se non è accompagnata da investimenti massicci e oculati. I quali, invece, sono costantemente rallentati come nel caso della TAV, che è emblematico ma non è il solo. Un mondo che va verso la riduzione del commercio tra Paesi e blocchi doganali è un mondo nel quale, soprattutto in questo momento, l’Italia ha molto da perdere.
L’Italia, insomma, è sì in recessione “tecnica”, ma con le nuvole della recessione (senza “tecnica”) e della crisi economica ben visibili all’orizzonte. A meno che non si ponga rimedio. Ma con i chiari di luna di questo governo, che proverà a dare la colpa della recessione magari a Satana, le cose non sembrano modificabili in tempi brevi.