di Gabriele Bonafede
(articolo del 6 Aprile 2013)
Al centro della scena c’è lei. Una lei multipla, multidimensionale, psichica, pervasiva: è Ophelia. Ma è anche la madre, la moglie, la presenza femminile e il ricordo della fine-e-non-fine certa che si propone, attraverso la metempsicosi, come vita oltre la vita, comunque e sempre centrale sul palcoscenico e nel percorso mentale di chi gli sta intorno. Per questo è al centro della scena e in primo piano nell’Ulysses di Claudio Collovà: una quarta protagonista insieme agli attori reali con Sergio Basile (nel ruolo di Leopold Bloom), Domenico Bravo (Stephen Dedalus) e Luigi Mezzanotte (nel triplice ruolo di Mulligan, Deasy e un cittadino).
Ophelia è una presenza quasi ingombrante, che si avvita nella coscienza e nello stesso spazio fisico e mentale dei protagonisti joyciani. Essi raccontano della loro solitudine e della loro incapacità a distaccarsi dalla presenza, dialogando spesso con un fantasma dal quale non ottengono risposta.
Regista dall’approccio raffinato e fortemente legato alla dimensione emotiva della rappresentazione, Claudio Collovà tratta, e anche ritratta, l’Ulysses, in una sequenza di riflessioni che aprono ulteriori vie e modi di lettura. D’altronde non poteva essere diversamente: una pietra miliare della letteratura europea, come l’Ulysses di Joyce, si presta a sensazioni e letture che chiedono la sublimazione teatrale. E Claudio Collovà, epigono della sublimazione che si fa scena, che si fa spettacolo teatrale totalizzante, riesce a rendere palpabile ciò che è difficilmente materico: lo stato mentale, lo stato psichico, la pittoricità della scena, le contraddizioni di pensiero, anima, ricordi, azioni, preconcetti e difesa di se stessi e del proprio retaggio.
Non a caso il preconcetto antisemita, raccontato in maniera così cruda e intima da Joyce, prende una parte rilevante dello spettacolo, soprattutto dove esso si distende in dialoghi anziché in monologhi. È chiaro che i monologhi, quali flussi di coscienza, sono anche loro al centro del percorso di Collovà in questa profonda lettura di Joyce, accompagnati dal mondo di oggetti e pensieri che incrostano e schermano la vita di Bloom come quella di Dedalus, opprimendoli senza dare vie d’uscita se non quelle dell’adagiarsi, dell’accettare nolenti o volenti l’ineluttabile imposto dalla società nella quale vivono: sfiniti dalle vicende personali dalle quali non riescono a uscire, finendo per non essere veri decisori delle proprie azioni, ma esecutori di uno scorrere anche misero della propria vita.
Uno dei momenti più coinvolgenti è quello del bagno turco, dove lo spettatore entra pienamente in scena, non solo grazie ai pregiati suoni dell’arrangiamento acustico-musicale di Giuseppe Rizzo ma anche attraverso l’olfatto: i vapori e I profumi del bagno turco emanano dal palco, attraggono lo spettatore che è quasi di forza portato anch’esso fin dentro il bagno insieme a Bloom, e dunque dentro la sua stessa psiche.
Là, Collovà e la densa interpretazione di Sergio Basile, riescono a mettere il proprio pubblico in aderenza completa con le sensazioni cerebrali, tattili, olfattive, del personaggio, come se fosse lui stesso, il pubblico, a trovarsi nella vasca d’acqua calda con i propri, angusti, pensieri, favoriti da un rilassamento a pagamento. E dunque da un rilassamento che rimane superficiale, ipocrita, come tutto ciò che vien fuori dall’impietoso mondo joyciano dell’Ulysses. Sergio Basile, con pochi gesti essenziali, lava il suo e il nostro corpo, dimenticando assieme a noi i nostri ricordi e tutto il mondo intorno, come succede al personaggio Bloom nel racconto di Joyce. Così come, leggendo le lettere della moglie, Basile-Bloom semplicemente rapisce: confonde il flusso dei sentimenti, emoziona, stordisce l’anima.
E ancora, scena madre, quella di Dedalus solo con la propria coscienza e il proprio dilemma, laddove Joyce incontra Shakespeare celebrando il bivio inevitabile di ognuno di noi a un certo punto della nostra vita. La sapiente interpretazione di Domenico Bravo riesce a trasferire l’identità del personaggio nella nostra identità personale. E soprattutto conferisce grande fisicità e presenza dirompente dall’inizio alla fine.
La violenza antisemita, psicologica prima ancora che fisica, è efficacemente rappresentata e interpretata da Luigi Mezzanotte che riporta al presente l’antisemitismo viscerale di quei personaggi che popolavano l’Irlanda di Joyce e che partoriranno i diavoli scatenati del XX secolo europeo. Mezzanotte li fa rivivere, individualmente, uno per uno, in maniera così reale da farci rendere conto che anche il mondo di oggi è tuttavia popolato da portatori dell’odio di razza, di religione, d’opinione e d’appartenenza sociale. E fa scorrere un temibile brivido, purtroppo non ancora sopito nel nostro mondo globalizzato e cablato.
Sullo sfondo, nell’esperta e visionaria scenografia di Enzo Venezia, c’è quella biblioteca con i libri aperti, galleggianti nel vuoto, pronti a essere letti, decifrati, e che tuttavia richiedono l’elevarsi, il sublimarsi appunto, per poterli prendere, leggerli e capirli anziché semplicemente ammirarli. Così il racconto del confronto con la propria coscienza, sia essa personale o sociale, prende forza ancora una volta sulla scena come nel pubblico: la ricerca dell’elevarsi dalle miserie terrene, individuali o collettive, è una ricerca che si fa a fatica. Richiede uno sforzo, come quello di salire fisicamente sugli scaffali, sulla scala della psiche, sulla scala della sfera spirituale
Travolti anche dalla cupa pittoricità che promana dall’apparato teatrale “olistico” di Collovà, e mutuamente favorito dall’arte figurativa di Venezia, evidente sin dall’installazione dell’Ophelia, il pubblico non può fare a meno di identificarsi, di sondare insieme ai personaggi e agli attori, presenti o non presenti, al ritmo dei suoni d’acqua. Questa riesce anche a farsi reale, liquida: come un passaggio a tappe dallo stato corporeo a quello etereo del dopo-morte.
Complice fondamentale di questo successo, oltre al lavoro corale di tutti i protagonisti, della regia e della scenografia, è lo straordinario impianto di luci e ombre, creato da Pietro Sperduti, che scolpisce a tutto tondo lo spazio scenico, mantenendo sempre viva l’attenzione e la riflessione del pubblico. Così com’è vitale il commento di musica e suoni stabilito da Giuseppe Rizzo, che raccoglie e catalizza tutti gli elementi, siano essi fisici o emotivi, sottolineando l’azione e il percorso vocale degli artisti così come quello di pubblico, personaggi e autore.
Di grande comunicatività e coinvolgente, lo spettacolo realizzato da Claudio Collovà sfianca e rapisce allo stesso tempo, raggiungendo l’obiettivo di dispiegare Joyce in tutta la sua tenebrosa potenza. È chiaro che un risultato di questo livello è anche merito della produzione del Teatro Biondo: ha reso possibile una ricerca approfondita che parte da lontano, con due precedenti tappe della trilogia di Claudio Collovà dedicata al grande capolavoro di Joyce.
Fotografie di scena di Ninni Annaloro.