di Pasquale Hamel
La Chiesa siciliana, nella prima parte del XIX secolo, era un soggetto in grado di condizionare le scelte politiche dei governi borbonici non solo per l’autorevolezza e il prestigio di cui godeva in tutti gli strati della società ma, anche, per il rilevante peso economico di cui disponeva.
Una grossa fetta del patrimonio agrario siciliano le apparteneva ed altrettanto ingente era il suo patrimonio edilizio, entrambi per lo più frutto di donazioni e di liberalità varie da parte delle famiglie aristocratiche.
I religiosi, secolari e regolari, erano numerosissimi, i monasteri e le case del clero non si contavano. Potere e ricchezza non erano, tuttavia, distribuiti in maniera omogenea.
C’era, in particolare, una forte differenza fra quello che viene indicato come “alto clero”, normalmente d’estrazione aristocratica, che comprendeva i prelati e quanti facevano parte della relativa corte, ed il “basso clero”, anche parrocchiale, spesso di estrazione contadina o piccolo borghese.
L’alto clero viveva negli agi e godeva di rivelanti privilegi mentre il basso clero non solo non navigava nell’oro ma, addirittura, spesso viveva in povertà. Anche per questo motivo, soprattutto nel basso clero – nonostante le forti tinte anticlericali che spesso assumevano i moti rivoluzionari – si manifestarono fin dall’inizio molte simpatie e perfino adesioni alle idee liberali che, in qualche caso, indussero membri del clero alla partecipazione diretta ai movimenti sovversivi.
Fatta questa premessa, si può dire che la Chiesa siciliana svolse un ruolo nient’affatto secondario nelle vicende risorgimentali. Chierici e religiosi si ritrovarono coinvolti nelle singole vicende rivoluzionarie e nelle sempre più frequenti cospirazioni antiborboniche.
Non è un caso che, in un foglio clandestino, pubblicato a Palermo in quegli anni, si poteva leggere: “Nei chiostri, nelle fraterie, nelle comunerie clericali spesso si formano associazioni di idee politiche avanzate … e nei momenti in cui il popolo insorge, non insorge giammai senza vedere frati e preti che precedono con la Croce le masse, che si ritrovano ad attaccare la truppa e a dirigere la resistenza.”
Chierici come Gioacchino Ventura, generale dei Teatini, come il presbitero Gregorio Ugdulena, come il teologo gesuita Giuseppe Romano, per citare i nomi di maggior rilievo, ma anche umili frati come il francescano fra Rosario da Partanna, come il frate cappuccino di Vittoria padre La China o come il più famoso fra Giovanni Pantaleo furono protagonisti di primo piano della Sicilia antiborbonica contravvenendo, in modo plateale, agli inviti alla prudenza ed alle negative rivolte loro dalla curia romana.
Non è un caso che Alessandro Dumas padre, che seguì come giornalista la spedizione dei Mille, sfottesse Giuseppe Garibaldi perché gli sembrava una contraddizione che l’eroe dei due mondi, notoriamente un anticlericale, si trovasse molto spesso circondato da preti che condividevano il suo progetto e lo seguivano anche con le armi in pugno. Naturalmente, soprattutto nelle alte gerarchie, queste aperture di credito e ancor di più la partecipazione diretta agli eventi di membri della Chiesa non erano sicuramente condivise.
Apertamente contro di esse si schierarono, ad esempio, i vescovi di Caltanissetta, di Trapani, di Caltagirone e di Messina mentre, una posizione tiepida assumeva l’arcivescovo di Palermo, cardinale Giambattista Naselli che, sorprendendo e scandalizzando tutti, all’entrata di Garibaldi a Palermo si recò ad incontrarlo, il primo prelato a rompere con l’atteggiamento ostile e prevenuto delle alte gerarchie nei confronti dell’eroe dei Mille.
In copertina, un particolare all’interno della chiesa di Santa Maria Valverde a Palermo, foto di Gabriele Bonafede.