di Pasquale Hamel
Soprattutto a partire dal 1850, il controllo del territorio in Sicilia divenne sempre più arduo per la gendarmeria borbonica. Gruppi armati dediti al malaffare, bande e banditi, percorrevano senza molti contrasti le campagne siciliane e rendevano difficile garantire la sicurezza. Tutto ciò, nonostante l’inasprimento delle pene, con il ricorso all’esecuzione diretta diventato prassi ordinaria.
Il sereno godimento dei beni e la incolumità delle persone erano, infatti, continuamente messi a repentaglio dalla presenza di queste bande malavitose. Alcune aree, si pensi al circondario di Favara, “dove – come si legge in una relazione di polizia – si continuava a vivere fra i delinquenti”, erano praticamente sottratte al dominio della legge.
Di fronte a questa drammatica emergenza, la polizia borbonica si risolse a chiedere ufficiosamente aiuto e collaborazione agli stessi possidenti locali.
L’aiuto dei baroni si concretizzò nella costituzione di polizie private, cosiddetti giannizzeri, che senza essere ufficialmente riconosciute dalle autorità, di fatto affiancavano i “sorci” – così erano denominati i gendarmi borbonici – soprattutto nell’opera di repressione del banditismo.
Questi nuovi gruppi armati erano ben visti dal capo del dipartimento di polizia borbonica Salvatore Maniscalco, l’uomo a cui era stato affidato, dal luogotenente del regno principe di Satriano, il compito di ripristinare l’ordine dopo la rivoluzione del 1848-49.
Gruppi consolidatisi ben presto nel territorio che, per raggiungere i loro obiettivi, non andavano molto per il sottile e molto spesso finivano per essere essi stessi fomentatori di illegalità. Anche perché molti dei giannizzeri erano stati reclutati fra malavitosi o fra gli stessi banditi.
Da una lettera di un funzionario borbonico del tempo apprendiamo che “il Maniscalco, se fece prodigi in fatto di sicurezza credono che li facesse con misure eccezionali? Li fece con i grandi rapporti che si era creato con i proprietari delle province, i quali si tenevano l’obbligo di tenerlo al corrente di tutto, ond’è che di tutto era estesamente informato.”
Molti degli appartenenti a questi corpi paramilitari finirono ben presto, sostituendosi alle forze legali, per esercitare essi stessi il controllo del territorio e per ingrossare la mano armata di quella mafia che già nel primo trentennio del secolo XIX era una realtà forte e indiscussa in molte aree della parte occidentale della Sicilia. Per averne contezza basta dare un’occhiata alle famose relazioni “riservatissime” del 1838, del prefetto di Trapani il napoletano Pietro Calà Ulloa appartenente all’illustre famiglia dei duchi di Lauria.
In copertina, gendarmi borboni nel 1850. Immagine tratta da Wikipedia. Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3396033
Nel testo, mappa della Sicilia con il “tasso di mafiosità” per province e centri urbani. Tratta da Wikipedia. Di Antonino Cutrera – La Mafia e i Mafiosi: Origini E Manifestazioni (The Mafia and the Mafiosi: Origins and Manifestations), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11716675
Nel testo, busto di Pietro Calà Ulloa. Immagine tratta da Wikipedia. Di Ferdinando Scala – opera propria, CC BY-SA 3.0, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4087151