
di Gabriele Bonafede
Di nuovo si sono viste le cose più assurde nei mercati finanziari a causa dei dazi di Trump e del suo stucchevole comportamento. Ieri Wall Street è andata sempre più in basso fino a quando il presidente degli Stati Uniti ha annunciato una “pausa” di 90 giorni sulle tariffe, tranne che per la Cina dove le ha aumentate ulteriormente (al momento al 125%). Non si sapeva ancora per quali paesi ci sarebbe stata “la pausa di 90 giorni”, ma è bastato a fare schizzare di nuovo in alto le quotazioni di tutti gli indici di Wall Street nel giro di pochi minuti.
Correlazione diretta tra dazi e crisi dei mercati, in un quadro di incertezza che aumenta anziché diminuire
Questa è una ulteriore prova, se ce ne fosse stato bisogno, che la crisi dei mercati è strettamente correlata alle tariffe e al comportamento erratico e poco sensato dell’amministrazione-Trump. Non solo, è una ulteriore prova che i mercati si stanno aggrappando a qualsiasi notizia positiva, anche da parte di un’amministrazione americana ormai senza credibilità.
A questo punto, cosa succederà se Trump tornerà a dire che ci ripensa di nuovo e le tariffe tornano, magari peggio di prima? L’ipotesi non è solo possibile, ma quanto meno probabile. Certamente i negoziati individuali aumenteranno sensibilmente l’incertezza per 90 lunghissimi giorni.
Quando i mercati realizzeranno questa incertezza torneranno a scendere. E se Trump dovesse riproporre le tariffe iniziali, arriverebbe un disastro senza precedenti e di proporzioni difficilmente immaginabili.
La recessione negli Stati Uniti rimane probabile
Di fatto, i motivi fondamentali che portano a una recessione globale rimangono quasi inalterati, se non in peggioramento.
Ieri è stato solo evitato il crash finanziario e il panico generalizzato, ma la situazione rimane incerta con un outlook molto negativo. L’outlook è fortemente negativo soprattutto per le economie di Stati Uniti e Cina. Cioè per le economie più grandi nel mondo.
La recessione di Cina e Stati Uniti si rifletterà inevitabilmente sull’Europa e su tutto il mondo, anche se c’è ancora qualche speranza che l’effetto sarà meno forte del previsto. Per giunta la contrazione economica sarà accompagnata da un aumento dei prezzi accoppiata a una maggiore incidenza sulla disoccupazione. L’amministrazione-Trump sta infatti licenziando gran parte dei dipendenti pubblici, aumentando i tassi di disoccupazione nel momento più sbagliato. Altro segno di un comportamento privo di senso.
Rimangono infatti le tariffe di importazione negli Stati Uniti del 10% per tutti i paesi, persino per quelli strategicamente alleati come l’Australia dove c’è un surplus commerciale per gli Stati Uniti.
Tariffe del 25% rimangono per il settore automobilistico e materie prime fondamentali. A conti fatti, la “pausa” abbassa sì la media delle tariffe inizialmente annunciate, ma di poco, troppo poco. Con l’aumento sconsiderato nei confronti della Cina, la tariffa media “scende” dal 27% d al 23%. L’aumento medio rimane. Ed è persino più elevato rispetto al disastroso aumento dei dazi operato dagli Stati Uniti nel 1930 che portò alla Grande Depressione, quando fu del 20%.
L’incertezza non diminuisce, anzi aumenta. Il debito pubblico degli Stat Uniti rischia di esplodere
L’incertezza a livello globale non diminuisce. Anzi aumenta, perché la credibilità degli Stati Uniti diminuisce ulteriormente, le imprese congelano decisioni e investimenti per almeno 90 giorni, inflazione e disoccupazione sono a un passo dall’esplosione persino con la contrazione dei consumi tipica di una recessione.
L’aumento delle tariffe medie rimane semplicemente insostenibile, anche con la pausa.
Non stupisce quindi che il tasso di interesse nei buoni del tesoro americani tendenzialmente aumenti. Il che annulla gli introiti nelle casse federali dalle tasse-tariffe a causa di un aumento anche degli interessi sul debito pubblico USA. Non a caso si parla già di un abbassamento del rating sui buoni del tesoro USA. A queste condizioni e nel pieno di una recessione, il debito pubblico degli Stati Uniti, già gigantesco, potrebbe esplodere.
Recessione e discesa nei prezzi dell’energia: petrolio e bancarotta russa
Con una recessione alle porte, la contrazione della domanda sia per il prodotto finito che per gli input di produzione è facilmente prevedibile, soprattutto per quanto riguarda l’energia.
Sintomaticamente il prezzo del petrolio e di altre forme di energia continua scendere sensibilmente, in anticipazione di una domanda debole a causa della recessione. E soprattutto a causa della prevedibile contrazione della domanda di energia da parte della Cina.
L’unica cosa positiva è che in questo quadro le probabilità della bancarotta russa aumentano di giorno in giorno, il che porterebbe per lo meno alla fine della guerra in Ucraina.
Infatti, la Russia non è in grado di sostenere per lungo tempo un prezzo ufficiale del petrolio sotto i 50 dollari al barile. Considerando che al momento è costretta a venderlo sul mercato nero con uno sconto sostanziale e fondamentalmente alla Cina, i prezzi di oggi sono a un passo dal punto critico. Inoltre, il break-even point della produzione russa è stimato a 35 dollari al barile, con la guerra anche di più. Sotto i 35 dollari al barile alle imprese russe non conviene più produrre perché costa più di quanto è il prezzo di vendita Considerando che il settore della produzione energetica rappresenta almeno il 25% del PIL russo, ciò rappresenterebbe di fatto la bancarotta di Mosca.
In copertina, foto di Aditya Vyas su Unsplash.