Baragli: Giacomo, scultore, e Guido, pittore scomparso pochi giorni fa. Padre e figlio nel loro dialogo artistico intergenerazionale. Eva Di Stefano racconta l’evoluzione di una visibilità poetica quando a Palermo si parlava di altre vicende
di Eva Di Stefano (*)
Il giovane Guido Baragli aveva il bel passo di un Rimbaud, era un dandy che giocava a fare il maudit. Si definiva “un ospite divertito del mondo”. Così mi disse in un’intervista che feci nel 1986 a lui ventitreenne e ad altri di quella generazione di artisti che negli anni’80 scardinava il pigro vivacchiare di Palermo tra guttusismi e astratti furori informali. Proponendo una nuova pittura disagevole, dissonante, mixata con le nuove immagini elettroniche.
“La voglia era quella di umanizzare, riscaldare la freddezza del video – diceva Guido -, creare immagini emotivamente cariche, in simbiosi con le proprie sensazioni di vita”.
Sì, allora a Palermo erano anni di morti per strada, come qualcuno ha qui già ricordato. Ma non erano anni culturalmente così smorti come qualcuno vi ha voluto fare credere, anzi. La cultura non era complice, ma destabilizzante. I pittori ancora non erano diventati pragmatici, e restavano anarchici rispetto alle istituzioni e alla possibile carriera, circolava tra tutti un arruffato romanticismo.
Guido Baragli era un protagonista di questa scena, ma già consapevole della necessità di andare oltre, perché – come mi disse nella medesima intervista – “poi bisognava uscire dalla nevrosi, ritrovare un certo lirismo, un’esecuzione meno impaziente, e recuperare una maggiore distanza, un tempo più pensato”.
E lo trovò questo ‘tempo più pensato’ prendendo le distanze dalla sua città rabbiosa, trasferendosi a Bologna e lì incontrando i quadri di Morandi. Alla centralità nervosa del corpo dei primi dipinti sostituì allora la costruzione quieta delle ‘nature morte’, e all’enfasi la contemplazione.
Cominciò a raffreddare la sua pittura vetrificando col silicone i profili delle bottiglie, riducendo ogni immagine all’essenziale o al suo fantasma lineare. Fu un lungo percorso quasi monastico di purificazione, finché non ritrovò l’energia abbacinante della visione pura, senza scorie esistenziali, iniziando così il suo periodo pittoricamente più felice.
Guardando alle sue nature morte ingigantite e cristalline, penso ad una scultura del 1965, più metafisica che realista, di quel magnifico scultore che fu suo padre Giacomo.
È un semplice tavolo di bronzo con una fruttiera, a cui mi pare che Guido nelle sue tante composizioni di frutta abbia voluto rendere il suo omaggio di vero ‘figlio d’arte’. Rispondendo con le ragioni della pittura alle ragioni della scultura, opponendo alla forza di gravità della materia il peso metafisico del colore nello spazio.
Tutte le sue opere, fino alle più recenti, testimoniano il piacere della restituzione di una visibilità poetica – e dunque senza tempo – alle cose vive del mondo.
In copertina, Natura morta, di Guido Baragli.
(*) Eva di Stefano ha insegnato dal 1992 al 2013 ‘Storia dell’arte contemporanea’ presso l’Università di Palermo. Ha collaborato a riviste e quotidiani come critico d’arte e curato mostre per istituzioni pubbliche già dagli anni ‘80. Specialista di Klimt e della Secessione viennese, è autrice di numerosi saggi sull’arte europea, tra cui Klimt. L’oro della seduzione (Giunti 2006), tradotto e pubblicato in Francia e negli Stati Uniti, e il recente Egon Schiele. Il diavolo in corpo (Giunti 2022). Attualmente si occupa di Art Brut e Outsider Art, ha fondato a Palermo l’Osservatorio Outsider Art, di cui dal 2010 dirige la rivista semestrale, unico periodico italiano interamente dedicato a questi temi.