di Serena Corsale
Farhadi torna in sala con “Un Eroe”, presentato a Cannes, dove ha vinto il Grand Prix Speciale della giuria. Lo si attendeva con ammirazione, il ritorno del regista due volte premio Oscar al miglior film straniero per “Il cliente” (2012) e “Una separazione” (2017), nonché vincitore dell’Orso d’argento per il miglior regista nel 2009 con “About Elly”
Il ritorno in patria
Dopo la parentesi spagnola di “Tutti lo sanno” (2018), probabilmente la sua opera meno incisiva, il regista torna in Iran. Questa volta resta lontano dalla capitale Teheran, scegliendo di girare a Shiraz, antica capitale della Persia. La scelta non è naturalmente casuale, e neanche (o non soltanto) estetica. La storia necessitava di una dimensione più umana e meno complessa, di una comunità legata dai valori della solidarietà e del sostegno reciproco, che Farhadi ritrova nella città del sud dell’Iran.
Ad eccezione della già citata esperienza spagnola e di quella francese de “Il passato” (premio della giuria Ecumenica a Cannes e a Bérénice Bejo come miglior attrice nel 2013), Farhadi ha sempre scelto di raccontare l’Iran.
Oggetto di accuse che lo additano come politicamente “schierato”, Farhadi ricorda che i suoi sono “solo film”; del suo paese narra la dimensione sociale e delle relazioni umane, sullo sfondo di complesse vicende politiche che influiscono sulla vita dei suoi personaggi. In questi termini, e solo in questi, il cinema di Farhadi è un atto politico. Esiste forse un’opera che non lo sia?
L’Iran di Farhadi
La macchina da presa di Farhadi si sofferma sulle contraddizioni dell’Iran moderno. La modernizzazione in ottica “occidentale” dell’economia fondata sul petrolio e le riforme volute dalla nuova classe borghese d’intesa con lo shah, a partire dal secondo dopoguerra, incrinarono sia le relazioni con le potenze occidentali che i rapporti tra regime e società. All’epoca la monarchia si avvicinò al mondo occidentale anche in termini di costumi e stile di vita, a scapito della componente identitaria tradizionale del paese.
Dalla strana alleanza degli anni ’60 tra “moschea e bazar”, ovvero tra le forze progressiste degli intellettuali e quelle reazionarie del clero sciita prese le mosse la rivoluzione di Teheran del ’77, contro la corruzione del regime, le interferenze occidentali e lo svilimento dell’identità persiana. Su queste fondamenta fu costruita la Repubblica islamica: un nuovo regime nazionalista, una teocrazia sciita populista e anticapitalista, che contrasta gli oppositori di sinistra e le minoranze; nemici diventano anche gli Stati Uniti, i regimi arabi sunniti e Israele.
L’Iran s’intreccia con tematiche ricorrenti e universali
Farhadi nasce nel 1972, pochi anni prima della rivoluzione. La sua generazione e quelle successive vivono una complessa situazione: sono state educate da genitori che hanno vissuto la loro giovinezza nella fase della monarchia filo-occidentale, ma vivono la propria sotto un regime teocratico che limita le libertà individuali.
I principi laici di libertà e autodeterminazione, i diritti democratici che queste generazioni sentono propri si scontrano con le privazioni e i valori religiosi del regime: la loro quotidianità è segnata da obblighi non compresi e non condivisi, ed è per questo che molti hanno lasciato e continuano a lasciare il proprio paese.
Queste contraddizioni sono al centro delle narrazioni di Farhadi: l’onore, il sistema della giustizia, la differenza tra la vita pubblica condotta sotto l’occhio vigile del regime e quella privata, in cui si riconquista la propria libertà personale.
Tali questioni si intrecciano con quelle etiche e morali, nonché universali: la menzogna, i conflitti familiari, i segreti, le separazioni. Fulcro delle sue storie è spesso il rapporto genitori-figli.
Tutto, nel cinema di Farhadi, ci mostra anche il suo “doppio”, l’altra faccia della medaglia: non a caso tanti sono gli specchi da cui osserviamo i protagonisti, le porte, i confini oltrepassati. Non si parteggia mai: la vita di ognuno ha lati oscuri, una ribalta e un retroscena, e può essere osservata da molteplici punti di vista senza mai schierarsi.
L’eroe di Farhadi
Nel sistema giudiziario iraniano, se si ha un debito con qualcuno e questi presenta una denuncia, il debitore va in prigione. Se la parte lesa rinuncia ai soldi che gli spettano e ritira la denuncia, il reo è libero, assolto. Questo modello è identico anche per i reati più gravi, come l’omicidio. Basta il “perdono” della famiglia della vittima per far tornare in libertà un assassino.
Questo è ciò che vive Rahim Soltani (Amir Jadidi), l’eroe di Farhadi. Ha la possibilità di estinguere il suo debito e far ritirare la denuncia, grazie a delle monete d’oro trovate per caso in una borsa. Decide di non venderle, di cercare la proprietaria e restituirle. Il suo gesto lo rende celebre ma non cancella le sue necessità e la sua condizione.
Una serie di eventi “a orologeria” si scatenano nella vita di Rahim, coinvolgendo la sua famiglia e tutti coloro che gli stanno intorno. La sceneggiatura di Farhadi instilla il dubbio, fa barcollare lo spettatore. Nessuno viene risparmiato dai sospetti, tratto tipico del regista.
Questa volta, però, a complicare le cose è la presenza ingombrante dei media. Se già la verità di Farhadi è sempre sfuggente e scivolosa, quella mediata da TV, giornali e social media diventa altro da sé. Chi circonda Rahim appare governato da questa Verità: poco importa se sia tale o meno, ciò che conta è che esista e sia di pubblico dominio. Tutto sembra essere funzionale a costruirla, senza alcun limite di natura morale, fin quando non si trovi il coraggio di porre un freno. Questo sarà il vero atto eroico di Rahim.