di Gabriele Bonafede
Probabilmente, Pirandello e Sciascia ne sarebbero rimasti deliziati. E, se esiste un aldilà, ne stanno condividendo le pagine con molti altri scrittori del pantheon letterario siciliano. Il fatto è che “Io non ci volevo venire” di Roberto Alajmo (Sellerio, 2021) ha un plot che più pirandello-sciascio-camilleriano-e-soci non si può.
“Aranci in tierra”, la sottintesa categoria che mancava nel “Giorno della civetta”
L’eroe investigatore è infatti un metronotte palermitano incaricato da un mafioso locale di svolgere indagini su un omicidio avvenuto nella sua zona di competenza e controllo. Per giunta, questo stesso incaricato non è uno dei suoi sgherri furbi e allenati a violenza, rapidità e ed efficienza. È invece un “aranci in tierra”, una cosa inutile, un impiastro, un dormiglione di professione, che tutto farebbe nella vita tranne pensare di acchiappare un delinquente.
Per dirlo alla Sciascia, è persino meno di un quaquaraquà perché non è in grado nemmeno di buttare chiacchiere al vento, rimanendo remissivo fino ad annullarsi. È la sesta categoria che manca ne “Il giorno ella civetta” di Sciascia: il “meno-di-quaquaraquà”, l’“aranci-in-tierra”, colui che non conta nulla, non vale, ed è buono solo per essere buttato al macero, se e in quanto.
Ed è proprio lui, il metronotte Giovà, l’ultima ruota dell’ultimo carro, ad essere elevato al ruolo che di solito vediamo svolto da un Salvo Montalbano o un Rocco Schiovane, oppure un Poirot o uno Sherlock Holmes.
L’impianto è, di per sé, geniale. E, in un’Italia tormentata da investigatori sciupafemmine di ogni genere e tipo, sarebbe stato difficile trovarne uno più originale, grottesco e indiscutibilmente azzeccato.
“Io non ci volevo venire”: una capillare descrizione del potere mafioso
Ma non basta. Sarebbe stato difficile trovare un eroe investigativo che, al contempo, è capace di offrire al lettore tanto involontarie quanto onnicomprensive indagini sull’essenza stessa del potere mafioso in Sicilia.
Potere mafioso che il romanzo di Roberto Alajmo riesce a spiegare in profondità, persino nel modo di pensare e di rapportarsi, nell’ambiente soggiogato alla mafia, ai grandi problemi della propria esistenza come a quelli più banali.
L’indagine entra capillarmente nel modo di pensare e comunicare nella giornaliera convivenza con la potenza incontrastata della mafia. Dunque, entra nel modo di pensare di chi con la mafia ci convive, ci deve convivere, che lo voglia o no.
Ma ciò che affascina è che il romanzo riesce ad essere tutt’altro che triste, rassegnato o esclusivamente tragico. Anzi.
Fin dall’inizio, la cinica ironia di Roberto Alajmo non dà scampo nemmeno al più triste dei lettori: le risate si palesano irrefrenabili e il buonumore ritorna a cancellare ogni pandemia depressiva.
Il ritmo tagliente di Alajmo già ampiamente goduto in altri dei suoi, qui esplode con affermazione materica. E più si va in profondità, più si ragiona, se ci è concesso, più se ne ride catarticamente.
“Io non ci volevo venire” e la grottesca realtà dell’Italia di oggi
Né ti puoi allontanare da ciò che vivi nel romanzo, soprattutto se abiti a Palermo. Anche perché, se apri la porta di casa – già aperta – ed esci, trovi esattamente quel mondo descritto nelle pagine di Alajmo e non riesci a dire altro che: “Io non ci volevo venire”. Oppure, se palermitano, “Io non ci volevo nascere, qui”. Io ci sono capitato per caso.
Di rimando, lo stesso pensiero può coinvolgere qualsiasi italiano: la mafia del XXI secolo, infatti, non è più un “onore” esclusivamente siciliano o meridionale. È ormai ubiqua, globale oltre che italiana o siciliana.
In un percorso che attrae e cattura con ritmo coinvolgente, il romanzo giallo di Alajmo permette di vivere in prima persona una borgata popolare di Palermo, all’occorrenza Partanna-Mondello, dall’una o dall’altra parte della stessa, infida, barricata.
Come Sciascia, Alajmo apre il vaso di Pandora della società siciliana atavicamente permeata di essenza mafiosa. Come Pirandello, “veste” ogni personaggio del proprio calvario psicologico costretto dal vestito intimo e sociale nel quale è irrimediabilmente, e irredimibilmente, costretto.
E lo fa per una società in movimento. Non quella del primo o secondo Novecento. Ma quella in cui viviamo: questa qui del terzo decennio del XXI secolo, fatalmente complicata da social, globalizzazione, fughe di notizie vere e non vere, ubiqui strumenti tecnologici di grottesca tortura auto-inflitta a se stessi da chi finge di non voler sapere. O, peggio, è costretto a voler sapere.
Tra giustizia e verità, la velata critica all’infestazione da genere “giallo”
Per chi, come me, detesta la gran parte dei gialli in circolazione, il romanzo di Alajmo aggiunge un gradevole sapore di elegante vendetta letteraria (o cinematografica, e anche teatrale), persino più di “Invito a cena con delitto” di Robert Moore. Anche perché, più che in salsa “internazionale” è confezionato in forma di succulento piatto di “pasta con le sarde”.
E qui, la globalizzazione permette, forse, di svelare uno dei pochi detti palermitani che non sono stati ancora svelati ai più.
“Pasta con le sarde” è l’equivalente della “combine” nel calcio. All’occorrenza, non solo nel calcio. E noi siciliani preferiamo sempre un succulento piatto di “pasta con le sarde” a uno scialbo “biscotto”. Con annessa riflessione su verità volute e cercate e di “giustizia” e giustizia: sempre ingiusta, in quanto umana.
In copertina, Roberto Alajmo.