Nel Comune del palermitano, coinvolto anche un ex-comandante dei vigili urbani
di Giovanni Burgio
Se il comandante dei vigili urbani di un paese di provincia è colluso con la mafia, come si può pretendere dai cittadini di quello stesso Comune l’osservanza e il rispetto delle leggi e la fiducia nello Stato? L’omertà, la rassegnazione, lo scettiscismo verso le istituzioni, non nascono forse da questo sconsolante stato di cose ancora oggi vigente in molti centri siciliani e del sud d’Italia?
L’operazione “Jato bet” suscita proprio queste riflessioni e pone prepotentemente questi dubbi.
Il 25 ottobre 2021 tra San Cipirello e San Giuseppe Jato sono state arrestate otto persone, una è andata ai domiciliari, un’altra è stata sospesa dal servizio.
San Giuseppe Jato e la mafia: le infiltrazioni
Un fatto grave emerso da queste indagini riguarda l’ex-comandante dei vigili urbani, ora in pensione, Giuseppe Orobello. Infatti, dopo la denuncia di un cittadino per uno scarico abusivo di materiali edilizi, non solo Orobello sarebbe entrato abusivamente nel sistema informativo dell’ACI, ma avrebbe anche informato i colpevoli del reato, Giuseppe Bommarito e i figli Calogero e Giuseppe Antonio, esponenti della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato.
Inoltre, per evitare multe e guai, Orobello avrebbe suggerito agli stessi di togliere immediatamente i detriti dal luogo incriminato. Per cui lui poi, andando lì per il sopralluogo d’ufficio, non avrebbe più trovato il corpo del reato.
San Giuseppe Jato e la mafia: il “pizzo”
Ma oltre a questi rapporti con le istituzioni che sono il tratto fondamentale che distingue la mafia da tutte le altre organizzazioni criminali, da quest’indagine viene fuori la conferma di un’altra regola-base di Cosa Nostra: anche le ditte di mafia quando operano sul territorio di altre famiglie mafiose devono “mettersi a posto”. Devono, cioè, pagare quanto dovuto alla famiglia mafiosa che controlla quella specifica zona.
Infatti, l’impresa dei Bommarito, spostatasi da San Giuseppe Jato a Palermo per realizzare alcuni appartamenti in via Pantelleria, è dovuta sottostare alla rigida legge del pizzo. Il pagamento, tramite Salvatore Napoli, doveva arrivare a Luigi Marino, emissario di Massimo Mulè. Quest’ultimo, oltre a guidare la famiglia mafiosa del rione di Ballarò, sarebbe il capo di “Palermo Centro”.
Oltre a un centro scommesse di San Giuseppe Jato, alla regola del pizzo non sarebbero sfuggite neanche le bancarelle installate per la festa religiosa delle Anime Sante. Ad ogni ambulante, infatti, venivano richiesti 50 euro. Nessuno però di questi commercianti ha mai denunciato le pressioni subite.
Il vertice della famiglia e la droga
Le indagini della Jato bet sono iniziate nel 2017, all’indomani dell’arresto di Ignazio Bruno, capo mandamento di San Giuseppe Jato, e del suo autista e consigliere Vincenzo Simonetti. I due avrebbero mantenuto i contatti con quelli che, in loro assenza, reggevano le fila della famiglia. Tra questi ci sarebbero Calogero Alamia, nipote di Antonino Alamia cassiere e vertice del clan, e Maurizio Licari.
In particolare è emersa la posizione di prestigio di Alamia. Solo grazie alla sua “autorevolezza”, infatti, sarebbero stati sanati i gravi dissidi sorti all’interno della famiglia nell’estate del 2018. Un intervento necessario per mantenere l’unità del clan e il controllo del territorio.
Oltre agli appalti e al pizzo, agli indagati viene imputato il traffico di hashish. Un giro d’affari sviluppato a San Giuseppe Jato ma anche a Palermo, in particolare nei mandamenti mafiosi di Santa Maria di Gesù e Porta Nuova.
E che lo smercio degli stupefacenti frutta notevoli denari, lo chiarisce un’intercettazione nella quale uno degli indagati propone a un altro. “Un po’ di erba la dobbiamo fare in qualche casa di campagna? Io ho le lampade e tutto il resto. Dobbiamo ancora puzzare dalla fame?”.
Foto in copertina tratta da Wikipedia, By Kristine L. Olson – I Joseph Digiovanni created this work entirely by myself., Public Domain, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=26208096