In “Marx può aspettare” il regista piacentino dà il meglio di se stesso
di Giovanni Burgio
Può la famiglia condizionare la vita di una persona? Possono i genitori, i fratelli, le sorelle, esercitare un’influenza tale da incidere pesantemente sulla personalità umana?
La riposta del film “Marx può aspettare” di Marco Bellocchio è sì. L’ambiente familiare, la storia, la cultura dei suoi componenti sono determinanti nella formazione e nella crescita di un uomo. E, nel caso narrato dal film, incidono negativamente.
Il lungometraggio autobiografico di Bellocchio è la storia del suicidio del fratello gemello del regista. Camillo già sin dalla nascita, salvato in extremis, soffre e arranca nella vita quotidiana. Non lo aiuta poi nella crescita la permanenza nella stanza con il fratello maggiore che ha notevoli problemi mentali, che urla e che va spesso in escandescenze.
Gli si prospetta un avvenire difficile, complicato, all’ombra di un gemello ritenuto più capace e intelligente. Una prospettiva di vita che dopo le scuole medie si profila in secondo piano con l’iscrizione “al geometra”. Un’assenza di progetto futuro pesantemente influenzata da ciò che fanno gli altri membri familiari.
Bellocchio e la famiglia
Infatti, la famiglia Bellocchio è fortemente connotata. Culturalmente e politicamente i suoi componenti rivestono importanti ruoli, soprattutto a sinistra. E Camillo probabilmente fa un continuo raffronto fra sé e i suoi otto fratelli, uscendone sempre ridimensionato, non all’altezza, forse estraneo a quel mondo così schierato e così impegnato.
Ne deriva un vuoto esistenziale, una mancanza di protagonismo soggettivo, una propria e autentica identità che non riesce a scorgere dentro di sé. Il servizio militare e la decisione di iscriversi all’ISEF per insegnare educazione fisica sono solo dei paraventi, alcune soluzioni materiali da dare in pasto alla madre che lo vuole “sistemato” e alla società che lo vuole collocato da qualche parte.
Ma l’inquietudine, l’insoddisfazione, il malessere profondo, permangono e rodono l’anima. Le tenui e nascoste richieste d’aiuto ai familiari non vengono da questi raccolte e capite, perché distratti e impegnati nelle loro frenetiche attività (anche un ipotizzato “lavoro” nel cinema con il fratello gemello viene sottovalutato).
Il tragico epilogo
È così che arriva a 29 anni la decisione di farla finita, di chiudere quella partita con la vita che non gli prospetta nulla di interessante, di originale, di suo, da realizzare e mettere in pratica. Nella sua palestra sotto casa la sorella lo raccoglie appeso alla corda per gli esercizi ginnici. Appresa la notizia, i fratelli confessano che non avevano mai pensato ad una fine simile; che non immaginavano che un tale tormento e sconforto agitavano così profondamente il fratello, forse troppo trascurato, forse non sufficientemente capito.
Dopo questo film autobiografico, tutta la filmografia di Marco Bellocchio risulta più chiara e manifesta. E d’altronde se ne intravedevano già le linee. I riferimenti alla vita familiare, al fratello con disturbi comportamentali, all’altro fratello suicida, alla religiosità estrema della madre, alla dicotomia fra vita privata e vita pubblica, sono prepotentemente presenti in tutte le sue narrazioni, dal primo all’ultimo film.
Questo, però, è senz’altro il suo testamento-capolavoro intimo-psicologico-biografico.
Ecco il trailer ufficiale, dal quale è tratta l’immagine di copertina di questo articolo.