“Quel crocitare mi destò. Di fronte
m’eri, o Sicilia, o nuvola di rosa
sorta dal mare! E nell’azzurro un monte:
l’Etna nevosa.
Salve, o Sicilia! Ogni aura che qui muove,
pulsa una cetra od empie una zampogna,
e canta e passa… Io ero giunto dove
giunge chi sogna;
chi sogna, ed apre bianche vele ai venti
nel tempo oscuro, in dubbio se all’aurora
l’ospite lui ravvisi, dopo venti
secoli, ancora.”
Giovanni Pascoli, L’isola dei poeti, da Odi e inni, 1906.
Giovanni Pascoli in Sicilia. “Io ero giunto dove giunge chi sogna”
di Francesco Bellanti
Uno dei più poderosi intellettuali europei, il più grande poeta italiano del Decadentismo, l’autore del Fanciullino e di Myricae, dei Canti di Castelvecchio e dei Poemetti, il poeta del Gelsomino notturno e de Il bolide, autore di versi vertiginosi sul cosmo e sul mistero della vita e della morte, dell’amore, che rivoluzionò il linguaggio poetico italiano, momento sempre esaltante della mia attività di docente, Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912), fu in Sicilia, a Messina, dove insegnò Lingua e letteratura latina per ben cinque anni all’Università, dal 1898 al 1903, e trascorse il periodo più bello della sua vita.
Furono anni, per stessa ammissione del poeta romagnolo, tra i più felici e fecondi, anni in cui perfezionò la sua poetica e la sua visione del mondo.
Pascoli – che si lasciava dietro Bologna dove aveva sofferto di solitudine – e la sorella Mariù, con il cane Gulì, giungono nella città dello Stretto e prendono in affitto un grande appartamento, sono felici, Mariù all’inizio si lamentò per avere contratto il tifo con il fratello per una esagerata abbuffata di cozze a Ganzirri, ma dopo si riconciliò con la città.
Il poeta del simbolismo e del mistero amò tutto della Sicilia, la storia e la cultura, il mare che se uno lo prende fra le mani resta azzurro, il panorama e la magia dei luoghi, la semplicità e la schiettezza della gente, l’aria che come un fermento cosmico dà origine al fluire della poesia e a versi melodiosi e bellissimi, come quelli de “L’aquilone”, che scrisse qui: “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: io vivo altrove, e sento che sono intorno nate le viole”. Scrisse all’amico deputato radicale messinese Ludovico Fulci il 5 maggio 1910 che egli aveva vissuto a Messina “…i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie della mia vita”.
Giovanni Pascoli in Sicilia: Messina
A Messina teneva conferenze, docente di prestigio tutti amava e da tutti era amato. Fu catapultato in una luce e in un tempo lontani, udì nel sonno le ciaramelle, quel suono di ninne nanne venuto a svegliare la “buona povera gente”, e scrisse poesie memorabili. Da Palazzo Sturiale, moderno e grande, da una casa pulitissima e con uno studio stupendo, così disse il poeta, poteva vedere il Castel Gonzaga sui monti e dopo il mare l’Aspromonte, e i meravigliosi profumi e i fiori alle finestre, e i fichidindia.
Amava, però, le passeggiate con gli amici e i poeti per la città e le spiagge, andava per la Palazzata, la Pescheria, la spiaggia di Maregrosso, andava per la campagna a inebriarsi dei profumi siciliani. Un giorno avrebbe ricordato un meraviglioso incontro con una bambina che, invece di chiedergli l’elemosina, gli chiese un fiore che il poeta portava con sé, “Vossìa mi duna u sciuri”, domandò, con una grazia e una dignità che mai il poeta avrebbe più incontrato.
Date dei fiori ai vostri bambini
Date dei fiori ai vostri bambini, disse il poeta del Fanciullino ai messinesi, poiché tutto un fiore è la vostra campagna. Fate loro vedere tante cose belle, poiché di cose belle hanno sete!, disse, tenendo fede alla sua poetica del Fanciullino secondo cui solo i bambini possono conoscere il mondo… C’è un superfluo che nella vita è più necessario di ciò che è necessario: la poesia. Ve lo insegnano le bambine che domandano “u sciuri” e non domandano il pane.
Date, restituite anzi, ai vostri figlioletti e a voi, la loro poesia, la loro domenica, le passeggiate, le scampagnate. Qui ci sono spiagge uniche al mondo; così si può avere affluenza di forestieri e incremento di ricchezza; in nome del lavoro stesso, che meglio frutta quanto più volentieri e lietamente è eseguito.
Che parole! E quando la città fu distrutta dal terribile terremoto del 1908, scrisse il poeta a un amico siciliano, con la sua consueta grandezza stilistica, che sì, sotto il mare pieno di voci, sotto il cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell’aurora, sotto le porpore iridescenti dell’occaso, dove la morte appiattata ha annullato tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza, tanta però ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare, e lì dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.
Perché la Sicilia mitica e immaginifica ha uno spazio e un tempo diversi, è pura poesia. Perché per Pascoli, strano socialista cristiano, solo la fede e la poesia possono penetrare nell’intimo delle cose e possono riscattare l’umanità da un destino di dolore.
Credits foto
In copertina, panorama nel territorio del Comune di Longi, Messina. Photo by Giuseppe Famiani on Unsplash. Link per questa foto qui.
Immagine di Giovanni Pascoli nel testo tratta da Wikipedia. Di Sconosciuto – File:Poesie varie (Pascoli).djvu, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20978359