Un mese di sequestri e confische a Cosa Nostra
di Giovanni Burgio
Il contenimento da parte dello Stato italiano dell’enorme massa di denaro illecito che circola nell’economia di ogni giorno è costante e deciso. Soprattutto al sud una buona metà della ricchezza prodotta non è legale e cerca di ripulirsi in attività economiche apparentemente in regola.
In Sicilia, dai casi che più avanti raccontiamo, emerge che in un solo mese attraverso sequestri e confische si è sottratto al controllo di Cosa Nostra un patrimonio complessivo di circa 200 milioni di euro.
Le attività coinvolte in questo enorme lavaggio di denaro sporco sono soprattutto quelle dell’edilizia, dei supermercati e della ristorazione. Ma c’è anche un notevole impiego in attività finanziarie varie che compongono il panorama dei beni sottratti alla mafia. Sono stati sequestrati circa settanta conti correnti bancari e nove polizze assicurative. E comunque case, terreni e negozi costituiscono gli investimenti più duraturi dei boss.
Il software “Molecola” in possesso della Guardia di Finanza si è rivelato una potente arma contro il riciclaggio di denaro sporco. Nelle indagini sugli indiziati di associazione mafiosa non solo si è risaliti ai beni intestati agli uomini d’onore ma anche a quelli messi a nome di parenti, congiunti e affini. E grazie alla comparazione fra redditi dichiarati e acquisti e spese effettuati si è potuta scoprire l’origine illecita della ricchezza posseduta.
Duecento milioni di beni sottratti alla mafia che vanno gestiti in maniera pulita
Un risvolto particolarmente amaro dei sequestri e delle confische agli imprenditori mafiosi riguarda il mondo del lavoro e gli occupati. Basti pensare che nei tredici supermercati sequestrati a Carmelo Lucchese sono impiegati 400 dipendenti, che d’ora in poi soffriranno nell’affrontare l’incognita dell’Amministrazione giudiziaria. Si deve ricordare, infatti, che solo il 5% delle imprese confiscate riescono a continuare nell’attività economica esercitata. Davvero poco sul totale delle aziende tolte all’economia mafiosa.
È evidente d’altronde che quando un importante fetta della produzione che ci circonda non ha origini sane e pulite, a risentirne sono non solo i fornitori e i lavoratori che sono a stretto contatto con i boss, ma anche i fruitori-consumatori che, a loro insaputa, utilizzano beni e servizi prodotti da queste imprese “inquinate”.
I prezzi imposti e la mancanza di concorrenza alzano, infatti, di molto il costo della vita nelle zone ad alto controllo mafioso. Un controllo extra statale che però negli ultimi tempi sta diminuendo grazie alla tenacia e alla determinazione degli organismi istituzionali. Perché i beni sottratti alla mafia rappresentano uno snodo fondamentale per abbattere le organizzazioni criminali.
L’arresto a Palermo in flagranza di reato di un estortore appartenente ad una nota famiglia mafiosa mentre stava incassando “il pizzo”, dopo la denuncia fatta da un giovane imprenditore, è un’ottima notizia sul fronte della lotta a Cosa Nostra. Un chiaro esempio di buona economia contrapposta ad attività economiche sporche e illegali.
Sequestrato un patrimonio da 150 milioni di euro a Lucchese, il re dei supermercati
Per comprendere meglio in cosa consista il legame economia-mafia e che tipo di attività commerciale c’è oggi in Sicilia è interessantissimo ripercorre tutta la storia imprenditoriale di Carmelo Lucchese, 53 anni, definito il re dei supermercati, a cui è stato sequestrato un patrimonio di 150 milioni di euro il 18 febbraio 2021.
Un percorso “professionale” comune a tanti altri “imprenditori” siciliani e abbastanza diffuso nel campo produttivo isolano. Un esempio da non imitare.
Lucchese comincia nei primi anni 2000 con un piccolo negozio di alimentari a Bagheria. Presto i supermercati diventano tre. Nel 2004 il salto decisivo: a Palermo, in corso Finocchiaro Aprile. E da quel momento in poi i punti vendita nel capoluogo siciliano diventano sette. I marchi utilizzati sono Conad, Todis e Margherita.
Successivamente inaugura un grande megastore a Carini e apre il Centro Himera a Termini Imerese. In tutto, 14 mila metri quadri in cui lavorano 400 dipendenti.
Così, l’iniziale valore patrimoniale di 229 mila euro raggiunge la cifra di 150 milioni. Il fatturato, dai 4 milioni per i tre piccoli supermercati di Bagheria, arriva a 80 milioni nel 2019 per i tredici superstore.
L’aiuto della mafia
Sono i due pentiti Sergio Flamia, della famiglia mafiosa di Bagheria, e Filippo Bisconti, capo mandamento di Belmonte Mezzagno, a raccontare come sia stato possibile a Carmelo Lucchese costruire un piccolo impero economico nonostante il settore dei supermercati ultimamente abbia visto ridurre la capacità di introiti e guadagni.
Carmelo Lucchese immediatamente, ma anche negli successivi, si rivolge ai capi mandamento di Bagheria, Onofrio Morreale, Giuseppe Scaduto, e lo stesso Flamia. Ottiene così, per i suoi punti vendita di Palermo e Bagheria, di pagare poco “pizzo” o nessun pizzo.
Ma è per il possesso del centro commerciale di corso Finocchiaro Aprile a Palermo che avviene l’intervento-chiave di Cosa Nostra bagherese a favore di Lucchese. Per estromettere due soci, Lucchese fa presenziare alle trattative due personaggi che, pur non aprendo bocca, intimidiscono i due imprenditori. Andato a buon fine l’affare, Lucchese come segno di riconoscenza regala a Morreale 25.000 euro. Ma comunque, per questo punto vendita il contributo (pizzo) a Cosa Nostra deve essere erogato lo stesso, e va ai Lo Presti, della famiglia di Porta Nuova, mandamento mafioso della Noce.
Incendi e intimidazioni
L’aiuto della mafia, naturalmente, continua anche dopo, procurando altri benefici all’imprenditore rampante. Due episodi in particolare sono raccontati da vari pentiti: l’incendio appiccato alla saracinesca del vicino e concorrente Eurospin e l’intervento per fargli rilevare un supermercato a Palermo.
Ma Lucchese cosa dà in cambio dei vantaggi ottenuti? Per i lavori necessari negli store utilizza le imprese segnalate dalla mafia; assume parenti di mafiosi; fornisce notizie sulle indagini giudiziarie che gli dà un ex poliziotto la cui moglie lavora in un supermercato; offre un appartamento, poi non utilizzato, per la latitanza di Bernardo Provenzano.
Avviene in sostanza quel “reciproco interesse” fra imprenditori e mafiosi che inquina l’economia, elimina la concorrenza, ripulisce denaro sporco, tiene sotto scacco lavoratori e imprese fornitrici.
La reazione degli investigatori
Dice il colonello Gianluca Angelini comandante del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Palermo “Stiamo contrastando gli interessi economico-finanaziari di Cosa Nostra ricercando, individuando e sterilizzando l’operato degli imprenditori collusi con la mafia. Quelli, cioè, cha dal rapporto illecito di reciproco interesse con la criminalità organizzata ricavano la forza per affermarsi sul mercato, alterando le regole della sana e leale concorrenza”.
“D’intesa con la Procura della Repubblica di Palermo – chiarisce il generale Antonio Quintavalle Cecere, comandante provinciale della Guardia di Finanza di Palermo – adottiamo una precisa strategia investigativa diretta alla sistematica aggressione dei patrimoni illeciti al fine di liberare l’economia legale dalle infiltrazioni criminali”.
Il patrimonio del valore di 150 milioni di euro, facente capo alla Gamac Group S.r.l e sequestrato dagli inquirenti, comprende: 13 supermercati, sette immobili tra terreni, fabbricati e ville, 61 conti correnti, 5 polizze assicurative, 16 autovetture tra cui due Porsche.
Un’enorme ricchezza sottratta al controllo dei boss e da ora gestita dallo Stato attraverso un amministratore giudiziario.
Confiscati a Giovanni Pilo beni per 40 milioni. Quando mafia e imprenditoria sono la stessa cosa (“nostra”)
Il 4 marzo 2021 è arrivata la notizia della confisca dei beni a Giovanni Pilo, 83 anni, imprenditore edile. Un tesoro di 40 milioni di euro tolto all’ “uomo d’onore” di Resuttana Colli e in parte intestato alla moglie e al figlio. Un patrimonio che viene da lontano, dagli anni del Sacco di Palermo, quando Pilo fece società con i corleonesi, i vincenti della seconda guerra di mafia dell’81-83.
Condannato al maxiprocesso a sette anni, di lui avevano parlato Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.
Pilo ha sposato la sorella di Giacomo Giuseppe Gambino, capo mandamento di San Lorenzo e componente della “Cupola”. Tra i suoi collegamenti con gli uomini di Cosa Nostra spicca quello con Francesco Cinà, boss di San Lorenzo a cui diede una villa per la latitanza di Leoluca Bagarella, e quello con Calogero D’Anna, della famiglia mafiosa di Terrasini.
Residente ormai nella provincia di Roma, a Pilo vengono confiscati otto società del settore edile e immobiliare, quattro polizze assicurative, cinque rapporti bancari. Ma soprattutto 145 immobili che comprendono due strutture alberghiere, una villa a Mondello, case, terreni e negozi a Palermo, Terrasini, S. Vito lo Capo, Roma e in provincia di Brescia.
Come si può facilmente dedurre da questo caso, fra imprenditoria e mafia non c’è conflitto, non c’è contrapposizione. E infatti non c’è alcuna richiesta di “pizzo”. Al contrario, Cosa Nostra e settore edile sono la stessa cosa. E la ricchezza che genera questo connubio rimane prevalentemente sotto il controllo dei boss.
Poco o nulla va alle classi sociali lavoratrici e subalterne, niente ritorna all’economia sana. Il luogo comune che vuole la mafia produttrice di lavoro e benessere è smentito da questo esempio di concentrazione di beni nelle mani di pochi criminali.
Una denuncia e un arresto. Quando l’imprenditore onesto reagisce
Quando a Palermo qualcuno si ribella è sempre una notizia. Se poi si ribella a Cosa Nostra diventa un evento.
Giovedì 11 marzo 2021 viene arrestato in flagranza di reato Riccardo Meli, 31 anni. Ha in mano i 300 euro riscossi a un giovane imprenditore che sta facendo alcuni lavori di ristrutturazione alla Vucciria. Le banconote sono state contrassegnate dalla Guardia di Finanza avvertita dall’associazione antiracket Solidaria a cui si è rivolto l’imprenditore.
L’arrestato, nipote acquisito del boss di Porta Nuova Tommaso Lo Presti detto il lungo, inizialmente aveva messo in atto tutta una serie di pressioni (richiesta di posti di lavoro, offerta di forniture, furti) che erano state respinte dall’impresario. Alla fine, perentoriamente, ha chiesto la “messa a posto”: 300 euro.
L’imprenditore ha preso tempo, e alla fine ha deciso di denunciare l’estorsione. “L’uomo stava vivendo una situazione drammatica – dice Totò Cernigliaro presidente della cooperativa Solidaria – e ne è uscito fuori grazie alle Fiamme Gialle e alla nostra squadra di psicologi, avvocati, commercialisti. Ma anche grazie all’aiuto di un imprenditore che pure lui in passato ha subito le richieste del racket”.
“L’arresto dell’estorsore alla Vucciria dimostra che chi denuncia ottiene tutela immediata – dice il generale Antonio Quintavalle Cecere comandante provinciale della Guardia di Finanza – In pochi giorni abbiamo liberato l’imprenditore dalla morsa del pizzo”.
Beni sottratti alla mafia: storia e attualità
Due elementi emergono da questo arresto per estorsione aggravata dal metodo mafioso. In primo luogo “l’appartenenza” dell’estorsore alla famiglia Lo Presti, storica detentrice del controllo del territorio di Porta Nuova; se una famiglia mafiosa così importante si accontenta di appena 300 euro per una “messa a posto”, ciò significa che ormai i boss fanno fatica ad andare avanti.
Secondo: il luogo dell’estorsione. Umberto Santino, noto storico del fenomeno mafioso, ha individuato nella Vucciria uno dei primi ambienti dove nel XVI secolo si praticava “il pizzo”. Si conferma quindi che Cosa Nostra, pur trasformandosi e adattandosi ai tempi, rimane sempre sé stessa. In questo caso emergono le sue specifiche caratteristiche dell’intimidazione e del controllo del territorio.
Sequestrati beni per 5 milioni di euro. Mafia e scommesse
Tra i beni sottratti alla mafia nell’ultimo mese c’è anche una villa di pregio a Favignana, 10 società di logistica, servizi, ma anche agenzie di scommesse, un ristorante a Palermo, una yogurteria, immobili, macchine e moto, per un valore complessivo di 5 milioni di euro sono stati sequestrati il 12 marzo 2021 a Francesco Paolo Maniscalco, Salvatore Rubino, Vincenzo Fiore, Christian Tortora.
Il sequestro è un capitolo delle indagini culminate lo scorso giugno nell’operazione “All in”, quando si accertò che Cosa Nostra si era infiltrata nel grande affare dei giochi e delle scommesse sportive. E accanto al gioco legale c’erano pure le puntate in nero. Un volume d’affari di circa 100 milioni di euro. Un metodo molto efficiente per ripulire il denaro sporco proveniente dalle famiglie mafiose dei vari mandamenti di Palermo.
Francesco Paolo Maniscalco è l’uomo chiave di queste inchieste. Appartenente alla famiglia di “Palermo Centro”, il 13 agosto 1991 era nel gruppo di rapinatori del Monte dei Pegni di via Pasquale Calvi a Palermo che portò nelle casse dei boss di Cosa Nostra un bottino di 18 miliardi di lire. Ma soprattutto di recente ha gestito quella massa di denaro, 100 milioni di euro, frutto di giochi e scommesse.
Salvatore Rubino è l’altro protagonista di questo grande affare, avendo messo a disposizione la sua abilità imprenditoriale per riciclare il denaro sporco. Proprio lui è l’intestatario della villa di Favignana.
Il software che non perdona
Come in altri indagini su Cosa Nostra, l’ingente patrimonio sequestrato è stato individuato grazie al software “Molecola” in dotazione alla Giardia di Finanza che permette di comparare i redditi dichiarati dagli indagati e dai propri familiari con gli acquisti e le spese fatte.
Un metodo informatico molto efficace contro l’accumulazione illegale di enormi quantità di denaro. Uno strumento di quella legge 416 bis del 1982 che per la prima volta introduceva il sequestro e la confisca dei beni accumulati dai mafiosi.
Sequestrata a Nicolò Giustiniani la villa con piscina di un “nullatenente”
Per lo Stato italiano era povero, tanto da percepire 900 euro al mese di reddito di cittadinanza. In realtà aveva acquistato e ristrutturato una villa con piscina e giganteschi leoni di marmo a Ficarazzi, e ne aveva intestata la proprietà ai genitori. Giovedì 18 marzo 2021 il Tribunale di Palermo ne ha stabilito il sequestro assieme ad alcuni rapporti bancari: valore complessivo stimato in circa 500 mila euro. Nicolò Giustiniani dovrà adesso giustificare questa sperequazione fra povertà dichiarata e beni facenti capo a lui e ai suoi congiunti.
Nicolò Giustiniani a gennaio è stato condannato a 14 anni. Era il braccio destro dei fratelli Stefano e Michele Marino, uomini d’onore del mandamento di Brancaccio e coinvolti nell’ orribile truffa alle assicurazioni passata alle cronache come “spaccaossa” (persone che pur di guadagnare qualcosa si facevano rompere braccia e gambe).
La caratura criminale del Giustiniani era emersa nel 2019 con le due operazioni antimafia “Maredolce 2” e “Sperone”. Indiziato di appartenere a Cosa Nostra, è stato soprattutto accusato di avere organizzato, coordinato e gestito il traffico di droga nella zona di Brancaccio, ma anche di avere messo a disposizione un proprio immobile per riunioni di mafia.
La villa di Ficarazzi e i conti correnti bancari sarebbero una parte degli ingenti introiti derivanti dal commercio degli stupefacenti.
Altri beni sottratti alla mafia per 3 milioni. Quando nei piccoli centri fioriscono le attività illecite
Domenico Waldker Albergo ha cercato di eludere la normativa antimafia e ha intestato beni e attività commerciali a familiari e conviventi. Ma i controlli contabili e finanziari, ormai sempre più precisi e puntuali, hanno fatto emergere un evidente sproporzione tra gli acquisti effettuati e i redditi percepiti, e così è scattato il sequestro.
A Noto, lunedì 22 marzo 2021, sono stati sottoposti a sequestro quattro attività del settore della ristorazione, 3 fabbricati, un terreno, disponibilità finanziarie, per un valore complessivo di circa 3 milioni di euro.
Waldker Albergo è considerato il rappresentante della famiglia mafiosa Trigila in provincia di Siracusa.
In copertina, foto tratta dalla pagina ufficiale Facebook della Guardia di Finanza (qui).