Il nuovo libro di Luciano Canfora con la tesi del mancato approdo socialdemocratico del Pci
di Giovanni Burgio
Luciano Canfora nel suo nuovo libro La metamorfosi sembra non darsi pace: “Com’è possibile che un partito politico come il Pci, che con Togliatti aveva fatto tutti i passi necessari per cambiare pelle e diventare un’altra cosa rispetto le sue origini, non abbia assunto una chiara e definitiva connotazione socialdemocratica?”.
Eppure – dice Canfora – il suo principale leader non era arretrato di un millimetro nel dopoguerra dalla decisione di dare una nuova forma all’originario e rivoluzionario Partito Comunista d’Italia (1921).
Togliatti, secondo l’autore di “La metamorfosi”, sin dal ‘44 e fino alla sua morte nel 1964, aveva sempre nella sua direzione politica messo in atto tutti i nuovi principi fondativi del “Partito Nuovo” che, abbandonando la sterile critica e propaganda, “interviene nella vita del paese con una attività positiva e costruttiva”.
E anche “intende assumere una funzione dirigente per la costruzione di un regime democratico” oppure “deve essere un partito nazionale italiano facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione”. E ancora “persegue una politica di “unità nazionale”; “partecipa al governo e intende restarvi”.[1]
Insomma, è sicuro Canfora, Togliatti aveva in mente un partito completamente diverso da quello nato nel 1921, che essenzialmente alternativo al sistema democratico e parlamentare, aveva come obiettivo la rivoluzione socialista in Italia.
La coerenza di Togliatti secondo Canfora
E l’abituale accusa di “doppiezza” rivolto al costruttore di questo rinato Partito Comunista non tiene conto che i nuovi capisaldi di questa concezione politica negli anni successivi “La svolta di Salerno” non solo vengono difesi, ma decisamente affermati quando si presentano alcune terribili prove. Tra queste: il gelo della “guerra fredda”, l’attentato da lui subito nel ‘48, il varo della “legge truffa”, il terribile ’56, la ferocia del governo Tambroni nel 1960.
Luciano Canfora afferma anche che Togliatti non sta fermo. Non resta immobile sulle posizioni del ’44-45, ma procede sulla strada del “gradualismo riformista” e comincia a discutere di “riformismo” (1956). Collega, inoltre, democrazia e socialismo, democrazia politica e riforme economiche in senso socialista. E questi suoi successivi passaggi politici lo fanno senz’altro arrivare sulla sponda della “socialdemocrazia classica” e del gradualismo socialdemocratico, abbandonando definitivamente la strada leninista.
Un partito incerto
E allora: perché dopo la morte di Togliatti non si proseguì su questa via? Perché il partito non prese atto che tutto il percorso delineato dal dopoguerra in poi aveva il suo naturale approdo nel mondo socialdemocratico?
Canfora risponde che in realtà il partito era perplesso su quelle scelte di fondo; indeciso se intraprendere la via del riformismo. Con Berlinguer segretario, né la rottura con l’URSS, né la sua dichiarazione di sentirsi più sicuro nella NATO, né il Compromesso Storico tragicamente arenatosi con l’assassinio di Aldo Moro, furono sufficienti per procedere sulla strada di una decisa trasformazione.
Così Berlinguer negli ultimi anni della sua segreteria navigò a vista e ondeggiò fra “L’alternativa di sinistra”, la “Terza via”, la questione morale, l’ambientalismo, e altro ancora. Insomma, non tracciò una via sicura e non individuò un percorso certo.
Il tradimento dei propri valori
E da Berlinguer in poi è ancora peggio: un susseguirsi di errori e banalizzazioni, che sfocia, afferma Canfora, in clamorosi adagiamenti sull’esistente, se non addirittura in ridicole affermazioni di principio.
I gruppi dirigenti succedutisi negli anni, infatti, vanno fieri della propria normalità. Così, eleggono come paese guida la grande democrazia americana, riscoprono i lati positivi del capitalismo e la necessità del profitto.
Non hanno di meglio da scegliere che sventolare la bandiera dell’europeismo. Non accorgendosi che questo nuovo internazionalismo in realtà non è che uno status dei benestanti ed è connotato dal punto di vista finanziario. Ma soprattutto agisce in maniera vessatoria verso le fasce sofferenti della società.
Un’analisi e un giudizio spietati quelli di Luciano Canfora, che sostiene che così facendo si sono negati la propria storia e i propri valori, producendo un allontanamento e un abbandono delle classi sociali deboli e subalterne da sempre punto di riferimento.
Tutto l’opposto di un partito che praticando riforme di struttura e operando con gradualismo riformista possa finalmente proclamarsi socialdemocratico.
Il volume è breve ma molto intenso, e costituisce una fondamentale riflessione sulla travagliata storia del più ampio partito comunista dell’Europa occidentale.
[1] Dal discorso pronunciato il 24 settembre 1944 alla conferenza della Federazione romana del PCI e da Opere, vol. V, Editori Riuniti, Roma 1967-79.
In copertina: edificio romano di via delle Botteghe Oscure al numero 4, sede storica del Partito Comunista Italiano (foto del 2016, anno in cui è sede del Consorzio Bancomat). Di Carlo Dani – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=49892177