di Francesco Randazzo
Il Festival di Sanremo per me è un ricordo in bianco e nero, sullo schermo sgranato e pulviscolare come un sogno sbiadito. Tutto si riverberava nel tinello o nella cucina dove il grande televisore stava acceso.
La luce della stanza spenta e un soprammobile pacchiano che emetteva una lucina bassa (per non rovinare gli occhi), tutti seduti, avvolti nell’argenteo lucore e tra le spire di fumo di qualche sigaretta. Si ascoltavano le canzoni. Non c’era molto altro. C’erano le canzoni e i cantanti. L’orchestra, i fiori sul palco, i microfoni giganti con l’asta. Tutto patinato come in un sogno racchiuso dentro lo scatolone del televisore che era una specie di mobile magico.
La musica e le voci aleggiavano in casa, tra fornelli, divani di velluto e centrini ricamati. Le nonne cantavano, le mamme cantavano, persino i papà cantavano.
Il nonno anche, ma cantava canzoncine americane di quando era stato in America, clandestino per quasi vent’anni; l’unico cantante italiano che gli smuoveva il sentimento era Claudio Villa, era un fan sfegatato manco fosse Freddie Mercury, ma non cantava le sue canzoni, lo ascoltava rapito.
Il Festival televisivo finiva presto, durava un giorno, due, forse tre, non ricordo bene ero troppo piccolo, ma il vero Festival era quello che partiva in casa, per giorni e giorni, sentivo cantare tutti gli adulti della mia famiglia; cantavano anche in macchina, fumando e coi finestrini chiusi, una roba che se la fai oggi chiamano i servizi sociali. Dalle case vicine, finestre e balconi dischiusi, facevano arrivare le note e le voci di tutti i festival di famiglia che si svolgevano contemporaneamente.
Del Festival non me n’è mai importato granché, lo sbirciavo allora, non l’ho visto per anni, sono tornato a sbirciarlo. Dura troppo, è farcito eccessivamente, i cantanti e vabbè, gli ospiti santi laici o pupazzoni, i vestiti improbabili, i social una specie di apocalisse vendicativa contro tutto e tutti, il gossip, le gaffe, etc. Non me ne importa nulla. Ma è un appuntamento immancabile.
Continua a piacermi quell’atmosfera che s’insinua a casa, le luci basse, il televisore pulsante, mia moglie che canta e balla come se fosse una quindicenne, mio figlio che le regge il gioco, e un certo cicaleccio che parte inevitabile, da comaruzze sedute fuori dalla porta di casa a spettegolare di quelli strani che passano per la strada.
Io me li guardo, mi lascio un po’ andare e mi sento veramente dentro qualcosa di stupidamente e profondamente vero, un momento di distacco dalla seriosità della vita, un ruttino infantile di sublimità familiare; come quando ti viene da ridere o piangere e non sai perché.
E va bene così.
Anche in tempi di pandemia. Anche senza pubblico all’Ariston. Che tanto, a noi a casa, tutti quei papaveri in poltrona ci stavano antipatici.
In copertina. Photo by Boston Public Library on Unsplash