Arresti, perquisizioni, sequestri. Va avanti la battaglia contro Cosa Nostra
di Giovanni Burgio
Cento persone arrestate, tre ricercate, ventuno indagate. Nelle perquisizioni sono stati rinvenuti e sequestrati: 27 attività economiche; 48 tra terreni e appartamenti; 50 milioni di euro di attività finanziarie; 1 milione e 188.000 euro in contanti; orologi, preziosi e 4 auto di extra lusso; 24 kg di marijuana e una serra; 12 pericolosissime armi da combattimento.
Questo è il bilancio delle sei operazioni antimafia che in un mese si sono susseguite senza sosta in Sicilia, soprattutto in provincia di Agrigento e Catania. Una realtà, un’economia, una società, che si muovono nascoste e parallele a quelle ufficiali.
Un continuo e incessante movimento tra l’Isola e il resto del mondo. Non solo verso gli storici boss americani, ma soprattutto in direzione dei nuovi mercati dell’est europeo e asiatico, degli innovativi traffici africani, dei produttivi investimenti nel Nord d’Italia.
Un via-vai di uomini, merci, contatti, relazioni, che non si sono mai fermati e che guardano a tutte le occasioni di arricchimento anche per pulire l’enorme quantità di denaro raccolto in traffici illeciti.
Un tesoro che da sommerso si trasforma in economia di sussistenza, sopravvivenza e assistenza per molti ceti sociali. Attività commerciali e produttive che, riciclando denaro sporco, tengono in vita interi settori della società emarginata e precarizzata.
Quasi metà del PIL prodotto nel sud d’Italia (v. soprattutto “Operazione Bivio” e “Follow the money”) è legato a queste attività illegali riconducibili alla criminalità organizzata e alla mafia. La lotta alla mafia continua e nell’ultimo mese ci sono evidenti successi, ma ci sono anche aspetti da migliorare.
Le novità nella lotta alla mafia
Da queste sei inchieste su Cosa Nostra siciliana emergono vecchi e nuovi nomi, antiche alleanze e innovativi settori d’affari. I perdenti dell’ultima guerra di mafia, siciliani e americani, investono nell’ortofrutta della provincia agrigentina; i clan del catanese per l’approvvigionamento della droga intessono rapporti con l’est europeo e investono nelle ricche regioni del settentrione italiano; i cult nigeriani s’impossessano di un intero quartiere palermitano.
Viene confermata, inoltre, l’unitarietà e il verticismo di Cosa Nostra siciliana. In particolare l’inchiesta “Xydi”, che ha colpito la famiglia di Canicattì, dimostra come i boss devono sempre sottostare e riferire ogni cosa ai capi mandamento e ai vertici della Cupola, e che la rinata “Stidda” deve comunque stipulare patti con Cosa Nostra.
Così come si è accertato che la nuova, mafiosa, “Commissione provinciale di Palermo” dispensi ordini e controlli tutte le attività delle famiglie. “Signoria territoriale” da parte delle cosche che rimane la prerogativa essenziale per lo sviluppo di attività e traffici leciti e illeciti (v. “Operazione bivio” nel quartiere ZEN di Palermo).
Successi e lacune
Gli indubbi successi ottenuti dalle forze dell’ordine, dagli inquirenti, dagli investigatori, vengono certificati dai significativi numeri di queste inchieste e dalle conseguenti e continue decapitazioni dei vari clan mafiosi dell’Isola.
Ci sono, però, altri settori dello Stato che non esercitano la stessa attenzione al fenomeno mafioso. Infatti, proprio nel corso di queste indagini si sono rilevati parecchi buchi neri e molta trascuratezza nell’applicazione del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi.
Infatti, le sei operazioni antimafia rivelano ancora una volta che i capi delle famiglie mafiose non smettono mai di essere tali: neanche in carcere, neanche al 41 bis, neanche dopo anni e anni di dure restrizioni. E, soprattutto, che i capimafia riescono a comunicare verso l’esterno: in tutti i modi e attraverso tutte le persone possibili. Un abbassamento della guardia della dirigenza della polizia penitenziaria che vanifica anni e anni di indagini e sacrifici (v. “Operazione Xydi”). Il 41bis applicato rigorosamente permetterebbe invece di rendere efficiente la lotta alla mafia.
Lotta alla mafia. Operazione “Bivio”
Il 26 gennaio 2021: 16 arresti
Le lotte intestine al mandamento di Tommaso Natale a Palermo certificano il pieno potere della nuova Commissione provinciale di Cosa Nostra.
I dissidi interni alla mafia
Giulio Caporrimo, storico boss della zona nord di Palermo, non crede nella nuova Cupola palermitana ricostituitasi a Baida il 29 maggio 2018. Ne contesta la legittimità e non riconosce le sue decisioni perché ignora uno dei principi fondamentali dell’organizzazione: anche quando si è detenuti in carcere si mantiene l’incarico di vertice. Per cui Francesco Palumeri, nominato dalla nuova Cupola reggente del mandamento di Tommaso Natale dopo gli arresti di Nunzio Serio e Calogero Lo Piccolo, non può stare sopra di lui appena uscito dal carcere.
“Questa non è più Cosa Nostra, ma è una “cosa come vi pare”, “come viene”. E ora s’immischiano pure Stidda e Cosa Nostra” dice arrabbiato Caporrimo. Che spazientito lascia Palermo e se ne va a Firenze. Per poi tornare, riprendersi il territorio ed essere di nuovo arrestato nel giugno 2020.
La nuova famiglia di Pallavicino-ZEN e il nuovo fronte del reddito di cittadinanza nella lotta alla mafia
L’indagine “Bivio” ha svelato anche che all’interno del mandamento storicamente controllato dai Lo Piccolo è stata costituita di recente la nuova famiglia mafiosa dello Zen-Pallavicino che è gestita da Giuseppe Cusimano assieme a Francesco L’Abate. Cusimano è quello che, oltre a percepire il reddito di cittadinanza, è stato promotore del cosiddetto “welfare della mafia” durante il primo lockdown; infatti ha distribuito beni di prima necessità alle famiglie in difficoltà economica.
Il riciclaggio
La conferma che gli ingenti introiti monetari illegali vengono riciclati dalle famiglie mafiose in aziende commerciali viene dalle 10 attività economiche cadute nel mirino degli investigatori. Una ditta di gas, un distributore di carburante, un bar e un panificio sarebbero controllati dal Cusimano. Tre bar, due pompe di benzina e un centro scommesse da Antonino Vitamia, reggente di Tommaso Natale.
La collaborazione delle vittime fondamentale nella lotta alla mafia
Nel corso dell’inchiesta sono state accertati 13 estorsioni e 2 danneggiamenti. Importante il controllo sui grandi appalti pubblici del passante ferroviario e del collettore fognario di Sferracavallo. Ma tutti i cantieri aperti nella zona si dovevano “mettere a posto”. Ad un imprenditore che si rifiutava di cedere parte dei lavori, la minaccia è stata di prendersela con la moglie e la figlia. Questo imprenditore, assieme ad altre quattro vittime del racket, ha reagito e ha denunziato tutto agli investigatori.
Inchiesta “Xydi”
Il 2 febbraio 2021, 22 arresti. A Canicattì, nell’agrigentino, si fanno affari milionari, arrivano gli americani, si riforma la “Stidda”, ricompare Messina Denaro. Vecchie e nuove trame si tessono dunque e vanno tenute in massima considerazione per portare avanti la lotta alla mafia.
Lo studio dell’avvocato
Lo studio dell’avvocato Angela Porcello, a Canicattì, era diventato il luogo d’incontro di Cosa Nostra agrigentina.
Compagna del boss Giancarlo Buggea e difensore di Giuseppe Falsone, la famiglia mafiosa di Canicattì poteva contare ad occhi chiusi sulla donna cinquantenne che era sicura che i suoi locali professionali non potessero essere violati dalle microspie.
E invece proprio da lì si sono ascoltate le ultime notizie provenienti dal mondo criminale. Apprendiamo, così, che nella lontana e dimenticata provincia siciliana si producono quantità di denaro impressionanti, si esercita il vero potere, si stipulano nuove alleanze.
Ma soprattutto sappiamo con certezza che unità e compattezza regnano sovrane nell’universo mafioso.
I proventi milionari del mercato ortofrutticolo
L’affare dell’uva e dei quintali di prodotti ortofrutticoli esportati in tutto il mondo è milionario, ed è controllato dalle famiglie mafiose di Ravanusa, Canicattì e Campobello di Licata. Il capo mandamento di Canicattì, Calogero Di Caro, impone un unico sensale a tutti i coltivatori, che perdipiù devono versare dall’uno al tre per cento degli affari conclusi.
La gestione di questa enorme massa di denaro era affidata a un triumvirato: Luigi Bonocori, Giancarlo Buggea, Giuseppe Giuliana.
La rinata Stidda
Nell’affare entrano pure “gli stiddari”, i malavitosi che in quei territori sono concorrenti di Cosa Nostra. Gli ergastolani in semilibertà Angelo Gallea, mandante dell’omicidio del giudice Livatino, e Santo Gioacchino Rinallo avrebbero infatti ricostituito in quest’ultimo periodo la Stidda, considerata dai più ormai estinta. Grazie al lucroso e ingente commercio dei prodotti ortofrutticoli si sarebbe quindi arrivati a una pax mafiosa tra le due organizzazioni rivali. Tregua comunque armata, come dicono gli investigatori e ci insegna la storia.
Gli americani
Il clan americano dei Gambino ha storici contatti con la mafia agrigentina, in particolare con quella di Castrofilippo (il 14 novembre 1957, ad Apalachin nello stato di New York, l’unico siciliano ammesso alla riunione delle famiglie americane è stato Giuseppe Settecasi di Castrofilippo). Ed è qui in Sicilia, il 20 aprile 2019, che Buggea s’incontra con un americano, due russi e un castrofileppese. In un colloquio intercettato è lui stesso che lo racconta a Simone Castello di Villabate (PA), che è stato il “postino” personale di Bernardo Provenzano ed è sempre stato assolto dalle varie accuse che gli sono piovute addosso.
I contatti con i Gambino riguardano diversi affari. Il primo verrebbe fatto attraverso bonifici e soprattutto con carte di credito “a spesa illimitata”. Il secondo avviene in Kosovo, attraverso Sandro Mannino legato agli Inzerillo di Palermo. Il terzo consiste in soldi sporchi che partono da Singapore e arrivano nei porti siciliani, in particolare in quello di Catania che è ancora libero da ipoteche mafiose.
Matteo Messina Denaro
Nei due anni d’intercettazioni c’è anche la registrazione di un colloquio fra Buggea e Antonino Chiazza, quest’ultimo esponente della Stidda. Per esautorare dal vertice del mandamento di Canicattì Calogero Di Caro, i due parlano di Matteo Messina Denaro (qui un articolo del Giornale di Sicilia).
Sembra, infatti, che il Buggea possa arrivare fino al numero 1 dei ricercati in Italia, e soprattutto che ci vuole il suo assenso per un’operazione tanto delicata e pericolosa. Questi cauti e circospetti movimenti confermano la posizione di assoluto predominio del superlatitante non solo sulla provincia di Trapani ma anche sul mandamento mafioso di Canicattì. Una dimostrazione ulteriore dell’unitarietà di Cosa Nostra siciliana.
Il 41 bis allentato, un punto dolente nella lotta alla mafia
Nell’inchiesta sono finiti due poliziotti del commissariato di Canicattì accusati di aver fornito preziose informazioni ai mafiosi.
Ma i magistrati hanno anche rilevato gravissime falle nel sistema del 41 bis: nel carcere di Novara, boss di Agrigento, Trapani e Gela si sono visti, incontrati e parlati tranquillamente. È da tempo, infatti, che l’attenzione verso il carcere duro si è allentata, per non dire che è scemata del tutto.
Il suicidio
Un fatto inquietante è avvenuto dieci giorni dopo gli arresti: il suicidio del trentatreenne Francesco Riolo. Ex presidente del Consiglio comunale di Naro, Riolo di recente era stato nominato nel collegio degli avvocati difensori degli indagati dell’inchiesta Xydi.
Operazione “Minecraft”
Il 3 febbraio 2021: 15 arresti. A Catania sequestrati al clan Cappello-Bonaccorsi ingenti quantitativi di armi, droga e contanti.
Appena Massimiliano Cappello, fratello di Turi, storico capo della famiglia mafiosa, è uscito dal carcere, gli investigatori gli si sono messi alle calcagna per scoprire cosa sarebbe successo all’intero clan.
Intanto dalle indagini è subito emersa la volontà del Cappello di riprendere in mano il comando degli affari. Ed infatti, oltre a organizzare riunioni e incontri, il boss controllava lo spaccio a San Giovanni Galermo. Ma si è anche accertato che il suo braccio destro era Emilio Gangemi.
Le squadre
la scoperta più importante è venuta fuori dall’osservazione delle diverse squadre che operavano nei quartieri cittadini (tipica organizzazione di questo clan). Si è accertato, infatti, che la squadra più agguerrita e pericolosa era guidata da Salvuccio Lombardo Jr., il quale oltre ad avere una notevole disponibilità di armi, aveva costituito nei villaggi balneari di Campo di Mare e Ippocampo di Mare dei veri e propri fortini con impianti di video sorveglianza e vedette che presidiavano il territorio. E, come in un film comico, erano i componenti del clan a sorvegliare i poliziotti in prossimità dei loro uffici, della Questura, e con telecamere piazzate nei punti strategici della città.
La droga
Particolarmente attivo l’affare della droga. In provincia di Messina sono stati sequestrati 2 chili e 130 grammi di marijuana del tipo “amnesia”, qualità trafficata e prediletta da questo clan. E altri 22 chili di marijuana, con strumenti e altro materiale per il confezionamento, venivano rinvenuti a casa di uno degli arrestati. Inoltre, accanto l’abitazione di uno degli indagati si è trovata una serra con 73 piantine dell’erba e tutto il necessario per farle crescere. E che tutto questo era altamente remunerativo è dimostrato dai 188.000 euro in contanti ritrovati nelle perquisizioni.
L’arsenale
L’estrema pericolosità di questa famiglia mafiosa è certificata non soltanto dall’abitudine degli affiliati di girare armati e dalla gestione del traffico d’armi, ma soprattutto dalla qualità della “santabarbara” scoperta dagli investigatori: 2 pistole mitragliatrici Luger e Skorpion; 5 pistole semiautomatiche Beretta, Colt e Glock; 1 fucile mitragliatore Sterling; 1 fucile Beretta; 3 fucili d’assalto Kalashnikov.
Lotta alla mafia a Palermo. Operazione “Showdown”
Il 4 febbraio 2021: 8 arrestati e tre ricercati. Si conferma che a Ballarò, Palermo, i nigeriani “Viking” controllano spaccio e prostituzione.
Dopo i tredici arresti del luglio 2019, quelli eseguiti il 4 febbraio 2021 confermano la presenza sul territorio siciliano, e in particolare a Palermo, della confraternita-cult nigeriana dei Viking. Con l’operazione “Showdown” sono andati in carcere il capo dei Viking palermitani, Chukwuma Parkinson, e Duru Frankline detto “Sorò”, proprietario di un locale di ristorazione dove si svolgevano le riunioni degli affiliati e dove venivano inflitte le punizioni a chi sbagliava.
Oltre ai Black Axe, Eiye, Mainfight, i Viking costituiscono la cosiddetta mafia nigeriana presente in Italia dagli anni 2000.
A Palermo questi “cult” è da sei-sette anni che controllano capillarmente il quartiere del centro storico Ballarò. Spaccio di stupefacenti e gestione delle “connection-house” (le case di prostituzione) sono i principali introiti illeciti di questi clan africani.
Il micidiale crack
Negli ultimi tempi, oltre l’odioso sfruttamento delle tredici-quattordicenni vittime di “tratta”, è la vendita del crack il vero affare. Ottenuto dalla frantumazione della cocaina che arriva dall’estero nelle pance dei nigeriani, il crack si fuma in particolari bottiglie a forma di pipa. Prodotto nei laboratori di Ballarò, Borgo Vecchio e Sperone, l’esiguità del prezzo, 5-10 euro per dose, ne permette l’acquisto anche da parte dei minorenni.
Questa droga è particolarmente pericolosa perché crea subito dipendenza e forti danni al sistema nervoso centrale. I decessi sono numerosi, anche se le famiglie delle giovani vittime difficilmente fanno emergere la vera causa della morte. Ed un’ulteriore tragedia consiste nella vendita che le giovani ragazze palermitane fanno del proprio corpo per pagarsi le dosi di cui hanno impellente bisogno.
L’accordo fra Cosa Nostra e mafia nigeriana
Tutto questo traffico e spaccio viene gestito in accordo e in compartecipazione tra nigeriani e mafiosi dei quartieri, anche se fino ad ora questa alleanza d’affari tra mafiosi nigeriani e mafiosi palermitani non si è potuta provare in sede processuale.
Lotta alla mafia nelle ramificazioni finanziare. Operazione “Follow the money”
Il 10 febbraio: 5 arresti e 21 indagati. Il fiume di denaro sporco delle famiglie Scalisi-Laudani invade il nord produttivo.
I due imprenditori originari di Adrano (CT), Antonino e Francesco Siverino, erano a totale disposizione del boss detenuto al 41 bis Giuseppe Scarvaglieri, del clan Scalisi di Adrano e legato alla famiglia mafiosa catanese dei Laudani.
Inizialmente operativi ad Adrano nel settore della logistica e dei trasporti, da anni ormai si erano trasferiti in provincia di Verona. Da qui, grazie alla notevole disponibilità economica e finanziaria e alla protezione offerta dalle famiglie mafiose, avevano invaso il tessuto economico-produttivo della Lombardia e del Veneto, in particolare a Varese, Mantova e Verona.
Il tesoro dei clan
È lì, infatti, ma anche in Sicilia, a Catania e Enna, che i finanzieri hanno sequestrato, intestati a prestanome, 17 società del settore dei trasporti e dei prodotti petroliferi, 48 tra terreni e appartamenti, conti correnti e disponibilità finanziarie per 50 milioni di euro. Inoltre, durante le perquisizioni sono stati trovati e sequestrati oltre un milione di euro in contanti, orologi, preziosi e una Ferrari, due Porsche e un’Audi.
Chi comanda
Era il nipote di Scarvaglieri, Salvatore Calcagno, che dai colloqui in carcere portava fuori gli ordini del boss, esercitando quindi sul territorio il potere intimidatorio della famiglia e dirigendo gli affari. Mentre Antonino Calcagno, attivo nel settore dei trasporti, era il riferimento della cosca nei paesi di Adrano, Paternò e Biancavilla.
Inchiesta “Adrano libera”
Il 23 febbraio 2021: 34 arrestati. Il traffico di droga cha dall’Albania, tramite la ‘Ndrangheta, va in Lombardia e poi arriva in Sicilia.
Valerio Rosano quando ha cominciato a parlare non avrebbe mai immaginato di vedere il proprio necrologio affisso sui muri della sua città, Adrano. Tanto meno, che l’indirizzo della chiesa dove si sarebbero celebrati i funerali fosse quello del commissariato di polizia. Il clan di Adrano “Santangelo-Taccuni”, appartenente alla cosca catanese dei Santapaola-Ercolano, aveva in questo modo decretato la sua esecuzione. Il finale di un film non avrebbe potuto immaginare di meglio.
La rete del traffico, lotta alla mafia e alla droga
L’inchiesta “Adrano libera” ha svelato che il traffico di eroina, cocaina e marijuana avveniva grazie alla triangolazione fra un albanese, Ermir Daci, un calabrese, Giovanni Managò, e Antonino Amato e Domenico Salamone, originari di Biancavilla e Adrano ma residenti nelle provincie di Varese e Como. Un percorso, dall’est europeo al Nord d’Italia e poi in Sicilia gestito dalla ‘ndrangheta, ormai consueto in questi ultimi anni. Ma l’approvvigionamento degli stupefacenti veniva fatto dal clan anche in Campania, Calabria e nel messinese.
L’organigramma
Nel corso delle indagini è emerso che “Giannetto” Santangelo, nonostante sia in carcere, è ancora a capo della cosca adranese. Mentre Giuseppe e Antonino La Mela, Toni Ugo Scarvaglieri e Carmelo Scaffidi erano quelli che si occupavano del traffico di cocaina e marijuana.
Cosa Nostra sempre feroce
Infine bisogna menzionare tre episodi documentati nel corso delle indagini che ci ricordano quanto crudele e spietata è tutta l’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra: un gatto preso a pistolettate perché disturbava il sonno di un boss; il falso necrologio per un giovane pentito con la data dei funerali appeso su tutti i muri della sua città; un rapinatore che in ginocchio davanti a un boss chiede clemenza, per sé e per i propri familiari, perché aveva fatto un colpo in un esercizio commerciale protetto dal ras.
E pensare che ancor oggi qualcuno considera questo sodalizio occulto come “fonte di lavoro”, “dispensatore di giustizia sociale”, gestore “dell’ordine pubblico” … La lotta alla mafia invece è fondamentale per fare avanzare civiltà, giustizia, economia, società e sicurezza del Paese e va sostenuta in ogni modo.
Foto in copertina tratta dalla pagina ufficiale Facebook dei Carabinieri.
Foto della questura di Palermo (nel testo) tratta dalla pagina ufficiale Facebook della Questura di Palermo.
Anche attraverso i social si può collaborare con le forze dell’ordine e nella lotta alla mafia.
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