di Gianluca Navarrini
Il discorso di Giorgia Meloni ieri alla Camera è stato, a suo modo, molto efficace. Con l’esordio spiazzante della citazione del socialista Bertold Brecht (1); e con l’annotazione che un governo senza opposizione non è un governo (pienamente) democratico.
Questi elementi, non puramente retorici, dell’intervento della Meloni, credo possano suffragare che Fratelli d’Italia sia un partito rispettoso della Costituzione e delle istituzioni democratiche.
Ma la cultura ultraconservatrice, con tratti di reazionarismo, di cui i suoi esponenti sono latori non ha nulla a che vedere con il repubblicanesimo (e men che meno con il liberalismo).
Le parole chiave – più volte ripetute – del discorso della Meloni sono state, infatti, «Nazione», «Patria» e «Sovranità». Non risultano pronunciate «Popolo», «Paese», «Stato», «Società», «Libertà».
Nazione, Stato e comunità
Per la Meloni e Fratelli d’Italia, infatti, Nazione non è la comunità – con le sue contraddizioni e le sue dissonanze – prodotta da una stessa storia e produttiva di una tradizione linguistica e culturale. Nazione è solo un modo per indicare lo Stato, perché la sua visione è una visione monistica: ad uno Stato corrisponde una Nazione, un Popolo, una Società. E non stupisce la fedeltà alla dottrina – che fu anche del Fascismo – secondo la quale lo Stato viene prima della Società e ne è l’artefice.
Perché se per Mazzini e Renan la Nazione è un prodotto storico che si impone sull’apparato pubblico, dandogli forma e contenuto al punto da farlo diventare Stato-Nazione, la concezione di Fratelli d’Italia è opposta: l’apparato, con la sua forza coercitiva, crea la comunità nazionale e instilla nelle persone il sentimento nazionale.
Durante il Ventennio l’italianizzazione forzata delle minoranze linguistiche e le politiche di discriminazione razziale perseguivano – con strumenti raccapriccianti – questa finalità. Oggi, tanto per fare un esempio, la propaganda contro lo ius soli ha il medesimo sostrato culturale: la società, la storia, la cultura, i sentimenti di appartenenza ad una comunità nazionale non valgono nulla. Vale soltanto, invece, la volontà (illiberale, e persino irrazionale) dello Stato, in base alla quale è italiano solo chi ha nelle vene almeno qualche goccia di sangue italiano, benché sia nato e vissuto sempre altrove e benché ignori tutto dell’Italia: la lingua, la cultura, la storia, le istituzioni.
Il patriottismo della Meloni e Fratelli d’Italia
Anche il patriottismo della Meloni e Fratelli d’Italia non ha riguardo per il senso di appartenenza alle vicende storiche e culturali di una Società e di un Popolo, ma ha come unico contenuto il primato dello Stato. Si è patrioti – secondo la Meloni – non perché si senta la profonda appartenenza alla cultura e alla società italiana, non perché si persegua il progresso di tale cultura e di tale società (cioè del Paese), ma perché si appoggia incondizionatamente l’apparato statale, la sua volontà di potenza. Si tratta della perversione del «My Country, right or wrong».
Questa impostazione è indubbiamente gravida di conseguenze.
Se è lo Stato, infatti, a creare e a mantenere viva la Nazione, allora è chiaro che lo Stato è tutto e l’individuo, seppure gli sia concesso di non essere nulla, è ben poco. Ma lo Stato, per essere tutto, deve imporsi e riaffermare continuamente la sua potenza sia verso i sudditi sia verso gli altri Stati. Sicché la nozione di libertà individuale – che implica una “limitazione interna” della sovranità statale – è negletta (e infatti la Meloni non vi fa alcun riferimento) e il progetto di una federazione europea – che implica una “limitazione internazionale” della sovranità – è ferocemente avversato.
Ma questa concezione tutto è fuorché repubblicana, perché il cittadino si trasforma in suddito e l’amor di patria si tramuta in statolatria. Lo Stato (sotto la maschera ingannevole della Nazione) non è più a servizio della persona, ma è quest’ultima che viene assorbita e asservita alla volontà di potenza dello Stato.
(1) “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”. Citato in Enrico Baraldi, Alberto Romitti, Verrà mai il giorno in cui non ci sarà la sera? Baldini&Castoldi, Milano, 1994, p. 28. ISBN 88-859-8740-0