Il politico siciliano fu l’ispiratore di quella stagione politica. Ecco un’intervista del 2005 che descrive motivazioni, sviluppo e conclusioni di un periodo ben preciso della storia siciliana
di Giovanni Burgio
Nella lunga e importante vita politica di Emanuele Macaluso, purtroppo recentemente scomparso, un preciso momento ne connota la personalità e l’ideologia politica: la fine degli anni cinquanta durante la formazione dei “Governi Milazzo” all’Assemblea regionale siciliana.
Egli, infatti, deputato all’Assemblea regionale e segretario del PCI isolano, è uno dei principali ideatori e artefici di questa singolare e controversa fase politica siciliana che ha dato vita a vivaci e lunghi dibattiti, aspre polemiche, duri contrasti.
Ma perché l’“Operazione Milazzo” disarticolò le tradizionali alleanze politiche? Come mai quei governi sono ritenuti da alcuni confusi e trasformisti, da altri invece sono considerati come delicatissimi passaggi da una vecchia fase di immobilità assoluta ad una di movimento convulso con aperture fino allora ritenute impossibili?
Il contesto politico, economico e sociale
L’economia siciliana, fino ad allora basata sul grande latifondo cerealicolo, viene sconvolta dalle lotte contadine e dalle leggi di Riforma agraria. Scompare quindi dalla vita politica isolana la destra latifondista che aveva fatto da supporto sociale a tutti i governi regionali di centro-destra succedutisi dal dopoguerra al 1955.
Cresce sempre più, invece, la domanda d’industrializzazione dell’Isola. Tra la fine della guerra e il 1955 il ritmo di crescita industriale siciliano è più alto di quello nazionale. Inoltre il 27 ottobre 1953, nella periferia di Ragusa la Gulf Oil Company, grossa compagnia petrolifera privata internazionale, trova il petrolio. In Sicilia sale la febbre dell’oro nero e cresce la certezza di ricchezze che si pensa porterà con sé questa scoperta.
Si pone quindi il problema di chi deve guidare questa grande industrializzazione: i grandi monopoli privati nazionali ed esteri? O la piccola e media industria locale con l’aiuto pubblico?
La diversa concezione dello sviluppo economico siciliano crea due schieramenti in campo: da un lato i potentati monopolistici privati, quali la Fiat, la Montecatini, la Gulf Oil Company, che vogliono privilegiare la grande impresa privata.
Dall’altro lato c’è uno schieramento composito e variegato, l’alleanza milazzista: la Sicindustria di Mimì La Cavera, l’ENI di Mattei, le forze agrarie siciliane che si riconoscono in Milazzo, comunisti, socialisti, la destra missina, il malcontento democristiano. Questo vasto fronte considera positivamente l’intervento pubblico nell’economia e le forme di aiuto finanziario alle piccole e medie aziende locali.
Sul fronte politico la Democrazia cristiana, grande ed indiscussa protagonista di quegli anni, cambia gestione. Sconfitto il centrismo di De Gasperi, viene fuori nel 1954 il partito cattolico nuovo, moderno ed integralista di Fanfani. Ma la sua voglia di potere assoluto all’interno del partito provoca una forte reazione. In Sicilia, simboli politici come don Sturzo e Scelba e dirigenti di partito come Alessi ed Aldisio cercano di contrastare in tutti i modi lo strapotere di Fanfani.
L’Operazione Milazzo e i suoi detrattori
Questi prestigiosi personaggi democristiani si servono di Silvio Milazzo, agrario DC di Caltagirone, per sconfiggere il fanfaniano governo regionale di La Loggia. Milazzo, infatti, viene eletto capo del governo siciliano da un eterogeneo schieramento politico che va dall’estrema sinistra all’estrema destra, passando per la dissidenza interna democristiana. Per la prima volta la Democrazia cristiana è all’opposizione e si forma un nuovo partito cattolico, l’Unione Cristiano Sociale. Nasce così la cosiddetta “Operazione Milazzo”.
Questi governi, che rimangono in carica dall’ottobre 1958 al febbraio 1960, creano sconcerto e perplessità non solo in Sicilia ma in tutto il Paese. Per l’Italia repubblicana, uscita dalla seconda guerra mondiale fermamente ancorata secondo la logica di Yalta al Patto Atlantico, si tratta di una vero e proprio terremoto politico.
I detrattori di quest’esperienza politica dicono che si sono formate alleanze ibride, che il governo Milazzo è una manifestazione di trasformismo politico, che la rivendicazione di un’Autonomia siciliana più forte e significativa è sfociata nel peggiore sicilianismo isolazionista. Ritengono anche che la mafia è la regista dell’intera operazione, che la corruzione costituisce il principale collante di quelle eterogenee forze politiche.
L’Operazione Milazzo, Macaluso e i sostenitori
Dall’altro lato, chi ha sostenuto e ha difeso i governi Milazzo, sottolinea che fra le cause della breve vita e della caduta di questi governi ci sono: l’isolamento dal resto della Nazione, la mafia, l’intervento dei servizi segreti, un non sufficiente retroterra economico sviluppato, l’impreparazione della sinistra ad essere forza di governo, l’inadeguatezza degli uomini politici di allora a condurre in porto un’operazione politica tanto originale e delicata.
Indipendentemente da come si può giudicare la cosiddetta “Operazione Milazzo”, da allora in poi importanti cambiamenti furono introdotti nella vita politica non solo siciliana ma anche nazionale.
Prima di tutto vi fu l’acquisizione nell’area di governo delle forze della sinistra fino ad allora largamente discriminate. Infatti il governo Milazzo apre la strada al primo governo di centro-sinistra siciliano che a sua volta anticipa il primo centro-sinistra nazionale voluto dall’on. Aldo Moro.
Un secondo risultato si produsse in Sicilia: la rottura definitiva dell’egemonia politica democristiana sui governi che sin dalla fine della guerra si erano succeduti per un decennio. Mentre in campo nazionale viene sconfitto il tentativo di Fanfani di fare un partito cattolico integralista a sua immagine e somiglianza.
Ma soprattutto si smossero con grande irruenza le ristagnanti acque della politica siciliana che a loro volta erano già state agitate dai forti cambiamenti economici e sociali di quegli anni.
Il racconto di Macaluso
In un’intervista che gli ho fatto nel 2005 e contenuta nel mio libro su Pio La Torre (Pio La Torre. Palermo, la Sicilia, il PCI, la mafia, un saggio di storia orale, Centro di studi ed iniziative culturali Pio La Torre, Palermo, 2010), Macaluso sostiene e difende quell’esperienza politica, e ne sottolinea la “inevitabilità”.
Egli ritiene infatti che la Sicilia, una volta uscita dalla secolare feudalità agraria, doveva darsi una nuova classe dirigente borghese. E per fare questo occorreva un processo d’industrializzazione radicale che coinvolgesse in primo luogo il ruolo della Regione siciliana e soprattutto i suoi ampi poteri attribuitigli dal sistema dell’Autonomia.
Ciononostante Macaluso riconosce che in quel momento la sfida alle forze che si opponevano a quell’esperimento forse fu eccessiva e non sufficientemente valutata. L’esperienza Milazzo infatti, egli dice, rimase schiacciata dalle potenti reazioni locali e nazionali.
Macaluso: “Era inevitabile”
“Io penso – dice Macaluso nella mia intervista del 2005 – che la vicenda dell’Operazione Milazzo nelle condizioni in cui si pose era inevitabile. Qualunque sia poi il giudizio e l’esito, per cui ci sono delle luci e delle ombre. Era inevitabile. Inevitabile nel senso che una concatenazione di fatti, di avvenimenti, di situazioni, di contraddizioni, si sono accumulate in un certo momento, e bisognava dare delle risposte. E nella vita politica, e non solo nella vita politica, ci sono momenti in cui quelle risposte sono inevitabili.
Le condizioni della inevitabilità sono innanzitutto che si era conclusa la fase delle grandi lotte agrarie. Non perché fosse esaurita la questione agraria, che è rimasta sempre fondamentale per la Sicilia, ma la grande lotta per la Riforma agraria, per la terra, per la trasformazione dell’agricoltura, era stata al centro e aveva dato un colpo alla vecchia classe dirigente baronale, sia con la Riforma agraria sia con le leggi che poi tentavano di eludere, di aggirare, la Riforma agraria, come le leggi per la formazione della piccola proprietà contadina che comunque rompevano quel sistema.
A quel punto la Sicilia se voleva innescare un processo di modernizzazione suggerito dal colpo dato alla feudalità, doveva sviluppare un processo industriale senza il quale era impossibile fare crescere da un lato una borghesia industriale autonoma in Sicilia, e quindi una nuova classe dirigente borghese e non più aristocratico feudale, e dall’altro una classe operaia. Quindi un processo di modernizzazione, tenendo conto che siamo in una fase, alla fine degli anni cinquanta, in cui in Italia è già all’ordine del giorno un rilancio del capitalismo e uno sviluppo che poi fu chiamato “il miracolo economico”.
E quindi si trattava di sapere se la Sicilia doveva essere emarginata, ulteriormente emarginata, o poteva concorrere a determinare questo processo, ed esserne parte soprattutto. Quindi la questione si pone come problema dell’Autonomia; la Regione è in grado o no di aiutare questo sviluppo? Perché l’Autonomia a questo doveva servire!”
La fase politica ed economica della Sicilia
Nel ’55 – continua Macaluso – quando si chiude la fase del centro-destra dei governi Restivo, fu eletto presidente della Regione Giuseppe Alessi. Alessi fa un governo monocolore, ma con un Partito socialista che gli concede dei voti, un’astensione. Il Partito comunista gli vota contro, ma con un voto che in definitiva è un voto di attenzione, come si usa dire in termini politici. E Alessi è l’uomo che si pone il problema dello sviluppo industriale.
Teniamo conto che anche nazionalmente comincia a mutare la fase. C’è l’elezione di Gronchi; Gronchi fa un messaggio agli italiani che è una rottura rispetto al passato. Viene in Sicilia invitato da Alessi a fare una grande assemblea di industriali e lavoratori al Teatro Massimo in cui viene posto il problema dell’industrializzazione.
Si crea un clima nuovo: c’era un’associazione di industriali, la Sicindustria guidata dall’ingegnere Domenico La Cavera, che aveva posto con forza questo problema anche in polemica con la Confindustria nazionale; c’era un’attenzione dell’industria pubblica, soprattutto dell’ENI, verso la Sicilia che aveva risorse sia petrolifere che di gas che sembravano più imponenti di quelle che fossero.
Il petrolio in Sicilia e il monopolio internazionale degli anni ’50
Il monopolio era in mano agli americani, alla Gulf Oil, e il centro-destra aveva precluso l’ingresso dell’ENI in Sicilia. Quindi si pose il problema di rompere il monopolio della Gulf Oil e il problema di un rapporto con l’ENI per stimolare questa grande azienda nazionale a contrattare con la Sicilia un rapporto che fosse non solo di prelievo del gas o del petrolio ma che fosse di sviluppo industriale.
Si posero una serie di problemi che furono in parte affrontati con la legge per l’industrializzazione della Sicilia, e in parte invece sul campo della battaglia politico culturale.
Teniamo conto che c’era già stata una presenza della grande industria del Nord in Sicilia; era venuta, e continuerà a venire, con delle sue succursali, soprattutto nel campo della raffinazione del petrolio in tutta la zona di Siracusa e nella zona di Milazzo, che poi determinò inquinamenti. Poi c’era la Montecatini che faceva dei concimi. C’era Pesenti che aveva dei cementifici in provincia di Palermo. C’era la presenza di questi gruppi che tendevano a decupletare i benefici regionali per controllare lo sviluppo secondo i loro interessi.
La posizione di Sicindustria e La Cavera
“A questa linea si opponeva la Sicindustria di La Cavera, la quale riteneva che l’Autonomia, le leggi siciliane, dovevano servire a fare crescere l’industria siciliana che comunque in Sicilia aveva una sua presenza. Il sogno era di tornare agli anni, alla politica dei Florio.
E in Sicilia, a Palermo, c’era la Ducrot, c’era l’Aeronautica Sicula, c’era la Omsa dove si facevano le carrozze ferroviarie, c’era un’industria conserviera, c’era l’industria di Frasca Polara all’Arenella dove si facevano i succhi di frutta e gli estratti degli agrumi. La Cavera aveva un cotonificio… C’era un’attività che poteva essere la base di uno sviluppo ulteriore. C’erano insomma una serie di attività.
Quindi la battaglia – afferma Macaluso – si apre essenzialmente su questo fronte, tra chi sosteneva che in Sicilia l’unica cosa da fare era espandere di più le grandi industrie del Nord, e chi riteneva invece che fosse necessario fare crescere una classe dirigente locale, cioè che la Sicilia avesse una sua classe dirigente. E in definitiva il governo Alessi, che durò poco più di un anno, fu messo in crisi su questo punto dal gruppo fanfaniano di La Loggia, Gullotti, Lo Giudice, ecc.
La Loggia presidente e sostenuto dalla destra
Poi La Loggia diventa presidente della Regione con un governo appoggiato dalla destra, e lo scontro per la legge sull’industrializzazione diventa un punto nodale. Si fa la legge per l’industrializzazione che prevedeva la formazione di una finanziaria, la SOFIS, che era una società finanziaria in cui il capitale della Regione era di minoranza e c’era la partecipazione dei privati.
La Sicindustria va ad uno scontro con la Confindustria. La Cavera fu espulso dalla Confindustria e dal Partito Liberale perché sosteneva questa linea, e sosteneva anche Mattei, sosteneva l’ENI. Intanto all’Assemblea regionale siciliana il governo La Loggia nel 1958 venne messo in minoranza sul Bilancio da un folto gruppo di franchi tiratori, e quindi il governo doveva dimettersi.
Una prima volta La Loggia rifiutò le dimissioni, e sfidò l’Assemblea regionale. A questo punto noi decidemmo di fare l’ostruzionismo. Lui presentò un altro Bilancio modificando qualche cosa, e quindi in tutta l’estate, luglio e agosto, per due mesi del 1958, ci fu un durissimo scontro all’Assemblea regionale con un ostruzionismo condotto con determinazione e anche con molta capacità di manovra. Fino a quando La Loggia fu costretto a dimettersi, e si andò all’elezione di un nuovo governo.
Macaluso, Milazzo, Fanfani e La Loggia
Il gruppo democristiano dominato dal gruppo fanfaniano, da La Loggia, da Gullotti, ecc., propose un altro fanfaniano, Barbaro Lo Giudice, che era stato assessore alle Finanze. Ma fu ripetutamente bocciato dall’Assemblea regionale. A un certo momento i franchi tiratori della Democrazia cristiana cominciarono a votare Milazzo, il quale fu l’unico assessore che si dimise, e quindi aveva dato un segno di correttezza democratica. E l’opposizione riversò i suoi voti su Milazzo. Votarono anche le destre per Milazzo. E Milazzo fu eletto presidente della Regione.
A Milazzo fu intimato di dimettersi da parte della Direzione nazionale della DC, da parte del Cardinale, da parte di tutta la stampa nazionale. Ci fu una campagna! Milazzo non si dimise.
Fu espulso dalla Democrazia cristiana. E a quel punto fare o non fare il governo? Ecco lì dove nasce l’obbligatorietà. Perché dal fatto se Milazzo faceva o non faceva il governo dipendeva se tutta la battaglia che si era condotta aveva uno sbocco, oppure le carte tornavano in mano a La Loggia, in mano ai fanfaniani, alla Democrazia cristiana. Questa era la posta!
Quindi fare il governo – sostiene Macaluso – era una condizione, era la condizione per dare sbocco a quella lotta. Quindi si fece di tutto per fare il governo. E il governo fu fatto con sei, mi pare se non erro, democristiani che seguivano Milazzo, tra cui c’era Ludovico Corrao e altri.
Si fece con un pezzo della destra: della destra monarchica e della destra missina. C’era Grammatico, c’era un socialista del PSI, c’era un indipendente eletto nel PCI che era Paolo D’Antoni, ex prefetto di Trapani. E il PCI appoggiava dall’esterno.
Il sostegno popolare al governo Milazzo
Teniamo conto che il governo Milazzo fu chiesto da grandi manifestazioni spontanee: in piazza Politeama c’erano quarantamila persone; nelle piazze di Trapani ce n’erano migliaia; ad Alcamo, a Catania, a Caltagirone, a Caltanissetta, ce n’erano migliaia e migliaia.
Cioè fu un movimento di massa. Non fu una trattativa parlamentare. Perché ci fu una spinta popolare alla riappropriazione del governo della Regione, dell’Autonomia. L’ingiunzione di Fanfani, l’espulsione di Milazzo, ebbero anche un’eco fortissimo nell’orgoglio della Sicilia. Ci fu una vera e propria insurrezione democratica.
Io penso che quella operazione fu una sfida. Ecco, forse questa è la riflessione. Fu una sfida eccessiva. Sfidare la Democrazia cristiana che aveva allora il dominio assoluto con Moro segretario del partito, Fanfani prima e poi Segni presidenti del Consiglio nel ’59, nel momento in cui c’era una spinta nel Partito socialista per andare verso il centro-sinistra, nel momento in cui quindi la fase politica andava a cambiare, nel momento in cui c’era anche il boom economico quindi la borghesia italiana riteneva che non bisognava disturbare lo sviluppo nazionale… Insomma quella fu una vicenda che costituì una sfida a un complesso di forze.
Perché contro c’era la Confindustria, il cardinale Ruffini, il governo nazionale, c’era una perplessità nella direzione socialista nazionale di Nenni… Quindi era chiaro che forse non furono misurati i rapporti di forza quali potevano essere.
Macaluso: “Una sfida che andava fatta”
Tuttavia io penso che quella sfida andava fatta. Andava fatta perché in gioco c’era a mio avviso la possibilità di riaffermare il ruolo della Regione, un’indipendenza delle forze politiche capaci di usare la Regione per lo sviluppo della Sicilia nel rapporto unitario con lo Stato, ma dialettico, e quindi la costituzione di una nuova classe dirigente.
Questa era la sfida. Io infatti ritengo che persa quella sfida la Sicilia, anche se poi ci furono i governi di centro-sinistra, i governi D’Angelo, Corallo, ecc., che fecero anche essi dei tentativi sull’onda del milazzismo, da allora in definitiva la Sicilia ha conosciuto una decadenza. Nel senso che le istituzioni regionali, soprattutto la mancanza dell’affermazione di una classe dirigente, hanno fatto sì che tutta la vita della Regione s’incentrasse sulla spesa pubblica e sul rigonfiamento dell’impiego pubblico. E qui si apre un’altra storia che è la storia di una decadenza della Regione.
Macaluso tenta di giustificare un’operazione fallimentare. Quel furbesco tentativo di mettere insieme forze contrapposte, evocando quel sicilianismo piagnone che ha commosso le masse popolari e che, storicamente ha sempre aperto la porta. al peggio – mafia compresa – che la Sicilia abbia prodotto, spezzò il tentativo di riforma industriale che dopo la riforma agraria avrebbe dovuto segnare il contributo maggiore dell’autonomismo regionale siciliana
Macaluso qui fa soprattutto una ricostruzione storica. Le opinioni sono un’altra cosa.