di Giovanni Burgio
Di Giovanni Falcone ho sempre apprezzato la competenza, la precisione, la serietà. E poi la tenacia, la caparbietà e lo spirito istituzionale. La mafia lo ha ucciso proprio per queste sue caratteristiche. Perché per la mafia era un nemico che la stava mettendo in ginocchio.
Cosa Nostra non uccide a caso, rarissimamente compie azioni simboliche. Nel 99% dei casi colpisce bersagli che le danno molto fastidio, che possono mettere in crisi il suo sistema economico e di potere.
Pio La Torre, Montana, Cassarà, Padre Puglisi, Fava, Chinnici, Dalla Chiesa, Mattarella, Insalaco, decine e decine di altre vittime sono stati uccise proprio perché erano estremamente testardi e costanti nella loro battaglia, e avevano già raggiunto importantissimi risultati.
Di Falcone oggi ce ne sono pochi o forse nessuno. Ci sono invece molti millantatori, falsi eroi, personaggi mediatici. Nulla a che vedere con la sobrietà e l’accortezza del Falcone al centro di mille attacchi e mille polemiche proprio per la cautela e la prudenza usati. Uno stile di lavoro che nell’antimafia di oggi dovrebbe essere di guida e d’esempio.
Nel giorno in cui lo ricordiamo con nostalgia, affetto, dolore e rimpianto, continuiamo a seguire il suo metodo e il suo esempio, lasciandoci indietro retorica, affollati palcoscenici, facili proclami.
Per questo, giova citare una frase di Giovanni Falcone che non è ricordata così spesso quanto dovrebbe:
“Io credo che occorra rendersi conto che questa non è una lotta personale tra noi e la mafia. Se si capisse che questo deve essere un impegno – straordinario nell’ordinarietà – di tutti nei confronti di un fenomeno che è indegno di un paese civile, certamente le cose andrebbero molto meglio.”
(Da una intervista di Corrado Augias, intervento a “Telefono giallo”, alla Rai, qui il link).
In copertina, Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato e assassinata il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci insieme agli uomini di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.