di Franco Lo Piparo
Intellettuali di una certa notorietà, alcuni anche miei vecchi amici, hanno firmato un appello di Massimo Cacciari (qui il link su La Stampa) contro la sostituzione dell’insegnamento tradizionale face to face con il cosiddetto e-learning. Cito due passaggi.
«(…) dare superficialmente per assodata l’intercambiabilità fra le due modalità di insegnamento – in presenza o da remoto – vuol dire non aver colto il fondamento culturale e civile della scuola, dimostrandosi immemori di una tradizione che dura da più di due millenni e mezzo e che non può essere allegramente rimpiazzata dai monitor dei computer o dalla distribuzione di tablet».
«(…) la scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica».
Per favore, un nome e cognome, ne basta solo uno, di un folle che sostiene «l’intercambiabilità fra le due modalità di insegnamento». A forza di combattere i fantasmi si perde di vista il problema reale e che bisogna sapere affrontare: come fare interagire e arricchire reciprocamente le due modalità.
Un mio modestissimo appello ai rispettabilissimi e illustri intellettuali firmatari del grido di dolore di Cacciari. Se non avete, in questo momento di coronavirus, la fortuna di seguire nel suo processo formativo un nipote nativo digitale, offritevi come volontari in un doposcuola prima di sentenziare su argomenti che legittimamente, per motivi di età, non conoscete. Imparerete molto.
I due tipi di insegnamento non sono e non sono mai stati in conflitto. Si integrano e arricchiscono reciprocamente. Bisogna studiare il modo di favorire e migliorare questa interazione. I nativi digitali lo sanno fare benissimo anche da soli. Se venissero guidati da menti illustri come quelle che hanno firmato il grido di dolore di Cacciari lo saprebbero fare ancora meglio.
Cari nonni, illustri e non illustri, mettiamoci al lavoro. I primi a guadagnarci saremo noi. E sarà un guadagno conoscitivo e affettivo.
In copertina, Massimo Cacciari nel 1976. Foto tratta da Wikipedia, Di ignoto – http://legislature.camera.it/chiosco.asp?cp=1&position=VII%20Legislatura%20/%20I%20Deputati&content=deputati/legislatureprecedenti/Leg07/framedeputato.asp?Deputato=1d14810, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3391616
Ho quattro nipoti, di quattro cinque sei otto anni (di due famiglie diverse), che non sono nativi digitali, non so se per noncuranza dei genitori o loro diversa formazione culturale, che li ha portati a privilegiare nel loro rapporto coi figli altri aspetti culturali/educativi (il maggiore già a tre anni aveva una propria biblioteca di oltre trecento libri). Li sto seguendo parzialmente da nonno e garantisco che hanno patito molto la chiusura della scuola. I più piccoli chiedevano spesso dei compagni e delle maestre.
Seguo anche alcuni ragazzi della scuola media superiore e soprattutto nei primi anni a fronte dell’alta tecnologia dei loro smart-phone dimostano difficolta a seguire la posta elettronica, difficoltà a comprendere alcuni dei più banali algoritmi, difficolta a capireo i numeri che escono dai loro calcoli.
Che scuola non significhi istruzione mi pare talmente banale che mi vergogno a ripeterlo. Sono stanco della continua pressione di pubblicità e di tutta la retorica che accompagna l’espansione degli strumenti ‘digitali’. Che si tratti di strumenti mi pare ovvio. Di per sè non sono nulla, nè nel campo della cultura nè in quello dell’educazione. A mio avviso il peicolo sarà quello che parte degli insegnanti delegheranno a tali strumenti la funzione docente.
Quindi concordo pienamente col manifesto di Cacciari e altri.
Dissento totalmente dalle sue considerazioni.
Diego Marchetti (Padova)
Condivido pienamente l’appello promosso da Cacciari e le considerazioni del Sig. Marchetti. Quello che questo articolo sembra non cogliere per nulla e’ la questione della centralita’ dell’interazione umana e della necessita’ dell’istituzione “fisica” scolastica oggi piu’ che mai minacciata dal diffondersi dei social media, e non per causa del virus, ma gia’ da molto prima. Il punto non e’ essere contro le innovazioni tecnologiche e digitali che possono essere di grande aiuto qualora si tornasse ad investire sulla centralita’ strategica della scuola e dell’educazione pubblica e universale. Il problema e’ che invece queste tecnologie sono piegate alle esigenze primarie della mercificazione e del profitto, e questo non e’ certo senza conseguenze sulla formazione sociale e intellettuale dei bambini e dei ragazzi.