“Solo le donne emancipate garantiranno generazioni di uomini liberi” (Taha Hussein)
di Elena Beninati
Arriva finalmente al traguardo una riforma da lungo tempo attesa e benvenuta poco a Nord dell’equatore. Il governo sudanese introduce una norma che blocca la legittimità delle pratiche di mutilazione genitale femminile. Stop all’infibulazione in un Paese dove il 93% delle donne ha subito da ragazzina l’escissione della clitoride e la mutilazione delle piccole e grandi labbra vaginali.
Oggi finalmente, dopo anni e anni di lotte mosse da decine di organizzazioni che si battono per i diritti umani e delle donne, toccare una bambina è reato. Si. Finalmente!
Perché mutilare un piccolo corpo sano e funzionante, in virtù di ataviche credenze ancestrali dettate da misoginia e maschilismo, è né più né meno che stupro. Violenza. Prevaricazione. Crimine.
Oggi, la scelta del nuovo esecutivo sudanese costituisce un grandissimo passo avanti in un Paese che marciava di molti passi indietro sulla questione dei diritti umani e della donna in particolare.
La norma verrà introdotta nel Codice penale sudanese con una legge apposita, che seguirà i dettami della dichiarazione costituzionale sui diritti e le libertà, approvata nel 2019. Sancirà una pena detentiva di tre anni di carcere, oltre che una multa pecuniaria, per chiunque esegua mutilazioni genitali femminili.
Stop alla infibulazione. Un percorso lungo che oggi segna una vittoria per tutti
Un anno dopo la caduta del regime islamista di Omar Al Bachir, dittatore indiscusso per oltre un trentennio, il nuovo Governo di transizione entrato in carica alla sua deposizione, si mostra più accondiscendente e meno conservatore. Ma la sfida è appena iniziata.
Convincere una popolazione inzuppata di mentalità tribale non è impresa da poco. Soprattutto dove la pratica della infibulazione è considerata un rito di passaggio obbligatorio e di purificazione verso l’età matura in vista di un buon matrimonio, un rito che decide dell’appartenenza alla comunità e della reputazione individuale. La lotta è intestina. Il succo della vicenda è ancestralmente banale.
La paura nei confronti dell’essere femminile ha origini primitive e anche le mutilazioni genitali femminili hanno purtroppo radici antiche, risalenti al primo millennio avanti Cristo. Una delle prime testimonianze risale al 163 a.C., in un papiro egizio che racconta di fanciulline sottoposte alla infibulazione. Ancora oggi, per alcune comunità, solo le donne che hanno subito tale tortura vengono considerate vergini.
Un pregiudizio non solo islamico
Il pregiudizio che una donna debba essere illibata fino al giorno del matrimonio continua a esistere e a ordinare la società secondo i vecchi canoni secolari e non, comuni a tutte le religioni del libro e alle credenze religiose animiste.
La sessualità è l’argomento ostico davanti al quale si blocca ogni liberalismo e si infrangono i buoni propositi di apertura, laddove la liberazione delle donne costituisce una premessa per la modernizzazione e liberazione delle società in generale.
In realtà la querelle non riguarda la donna in sé, ma si concentra sull’assenza di progresso nelle nazioni fondate sul tribalismo e sulla veloce occidentalizzazione dei costumi che sfida la tradizione forte di secoli.
Oggi l’infibulazione è un crimine praticato soprattutto in alcuni Paesi asiatici e una trentina di Stati africani, spesso islamici ma non solo: Egitto, Somalia, Eritrea, Senegal e Guinea in primis. Circa 130 milioni di donne, ragazzine in maggioranza, sono costrette a subire un’amputazione fisica atroce, la privazione del piacere sessuale e la stigmatizzazione sociale dai traumatici risvolti psicologici e morali.
Cosa è l’infibulazione: tortura e orrenda mutilazione
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le MGF (mutilazioni genitali femminili, superficialmente equiparate alla circoncisione maschile) sono tutte quelle procedure che riguardano la rimozione totale o parziale dei genitali esterni delle donne o qualsiasi altra ferita arrecata agli organi genitali femminili per fini non terapeutici, ma culturali o religiosi.
Le mutilazioni genitali consistono nella rimozione, totale o parziale, della clitoride. La pratica più diffusa è l’infibulazione, che prevede l’asportazione della clitoride e la cauterizzazione della vulva, cui viene lasciato un piccolo foro per la fuoriuscita dell’urina.
L’escissione della clitoride in particolare mira all’eliminazione del piacere sessuale come segno di discriminazione tra i due sessi. I rapporti sessuali vengono impossibilitati fino alla defibulazione, ovvero la scucitura della vulva, che viene effettuata direttamente dallo sposo prima della consumazione del matrimonio.
Qualsiasi tipo di mutilazione genitale femminile rappresenta in qualsiasi caso una palese violazione dei diritti della donna. E’ discriminatoria e viola il diritto alla salute, alle pari opportunità, alla tutela da violenze, abusi, torture o trattamenti inumani previsti dal diritto internazionale. Esse violano i diritti delle donne alla salute sessuale e riproduttiva, all’integrità fisica, alla non discriminazione e alla libertà da trattamenti crudeli e umilianti.
Secondo la Fondazione Thomson Reuters la condizione delle donne sudanesi, in particolare, è una fra le peggiori del continente africano. Eppure dopo anni di battaglie e campagne di informazione persino in Sudan compaiono i primi segnali di apertura. Grazie alle associazioni umanitarie, con una svolta nel 2012: in coincidenza con la risoluzione Onu di messa al bando delle MGF, depositata dal gruppo dei Paesi africani e in seguito sponsorizzata dai due terzi degli stati membri delle Nazioni Unite.
Dal pregiudizio alla liberazione
Lo stesso Despota Omar Al Bachir promise di lavorare ad una legge che si opponesse alle mutilazioni genitali, ma nel 2015 l’opposizione dei conservatori schiacciò completamente la nascita del progetto.
Ancora oggi l’infibulazione, come la circoncisione per gli uomini, diffusa nella cultura ebraica e islamica, è una pratica legata ai riti che segnano il passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Nel corso dei secoli, la religione si è fusa ad una plurisecolare tradizione maschile confondendosi con essa. Quindi nelle diverse culture e società, il problema non è imputabile ai credo religiosi in quanto tali, bensì alla permanenza di una mentalità maschile retrograda e ristretta.
Nella cultura islamica che è essenzialmente influenzata dall’uomo, per esempio, le tematiche religiose scompaiono in favore di pratiche conservatrici e patriarcali. Si tratta di costrizioni emotive, psicologiche e di subordinazione che sono state usate per sostenere tradizioni sociali secolari.
Il pregiudizio occidentale si conforta nel ritenere la cultura islamica totalmente incompatibile con i concetti di laicità, democrazia e modernità, e millanta un presunto processo di involuzione della civiltà islamica in toto.
Dimenticando, erroneamente, che la concezione dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo compare in tutte e tre le fedi monoteistiche e trae origine, in primis, dalla tradizione giudaico-cristiana. L’islam non è considerato un impedimento all’emancipazione femminile.
Realtà sociale e religione. L’insegnamento dello scrittore Taha Hussein
Il nodo della questione sta, invece, nel comprendere come non sia la religione in sé a sancire l’oppressione delle donne, quanto invece una realtà sociale che, appropriandosi del sistema religioso, lo riformula a suo favore per trarne i maggiori vantaggi.
Lo stesso ragionamento vale per le culture tribali. Per il Cristianesimo, invece, le mutilazioni implicherebbero una mancanza di rispetto verso la santità del proprio corpo e quindi sono considerate peccato, tuttavia la pratica è stata conservata arbitrariamente fra le comunità copte, ortodosse e cattoliche del Corno d’Africa fino ad oggi.
Il precursore del movimento delle donne egiziane Taha Hussein un secolo fa sosteneva: «Solo le donne emancipate garantiranno generazioni di uomini liberi». Una massima che può darsi per scontata, ma è ancora oggi ampiamente disattesa, e non solo nei Paesi africani.
Essere sopra le parti, stare insieme nel rispetto reciproco e nella totale considerazione valoriale dell’altro, in termini di appartenenza e identità, non è un obiettivo raggiunto nemmeno nella “civilissima” Europa.
Sebbene oggi, almeno in Europa, la stigmatizzazione sociale non è più di ostacolo alla libertà della persona, non possiamo dirci di essere veramente liberi finché non ci imbattiamo in prima persona nell’ostilità dettata da un maschilismo comune e internazionale.