di Elena Beninati
La paura è sopra ogni cosa, la paura di non sapere esattamente perché provare paura. Un volto misconosciuto che ha le sembianze dell’angoscia. Un virus ignaro di aver portato guerra, che miete terrore e disperazione.
Siamo tutti Pericle alle porte della città che giurò di domare. Siamo come Pericle, l’eroe combattente che non temeva agguato e sconfisse ogni attacco con severa razionalità. Siamo un po’ come Pericle, increduli sotto le porte della città assediata e sconfortati.
Come lui non credevamo che il male avrebbe colpito i nostri cari, per lui fu la peste, che nel 430 a. C massacrò un terzo della popolazione di Atene, asserragliata dalle orde barbare nemiche, ma fiaccata al suo interno dal morbo pestilentus. Pericle perse una sorella, il padre, i suoi stessi figli. Il morbo non risparmiò l’eroe, e falciò ogni cosa vivente, carne su carne infettata al culmine della malattia.
La peste fu il simbolo del male assoluto per i secoli a venire. Quella del Trecento non ebbe nulla da invidiare, né fu invidiabile a quella del Seicento. Sotto mentite spoglie, smentite ormai solo da una diversa denominazione, oggi il male terrificante riaffiora, sempre più forte e pervasivo. Virulento. Infestante. Travolgente. Dissacrante. Senza avvertire, senza bussare. Implacabile come il cattivo segno che religiosamente chiamiamo sventura, oggi la morte arriva come un tempo la peste.
Bisogna abituarsi a tutto. Già. E’ l’imperativo che dava l’uomo alla natura, ai suoi sudditi, agli schiavi soggiogati dall’arroganza del padrone. Ma quando il padrone, l’onnipotente narciso, beghino egli stesso, si abituerà? Mai. Finché morte non lo separi dal suo orgoglio infantile e fin troppo espresso in tempi di prospera pace, ovvero prevaricazione.
Questo uomo, di siffatte sembianze non ha pietà. Non ha pietà alcuna per i suoi simili, meri strumenti di affermazione e accaparramento, non ha pietà di sé stesso, che d’altronde non comprende… A descriverlo così parrebbe un disgraziato e invece è il dominatore. L’eroe smargiasso e gradasso di questo stivale. Un emerito e illustrissimo signore privato del potere.
È un uomo finito e non comanda. Dissoluto al punto tale da non poter capire. Meno male! La saggezza non è degli stolti! Ma dei rassegnati. Che non si inalberano per le misure di sicurezza, che non si agitano per un po’ di pane in meno, che sono abituati alla perdita della libertà, non avendone mai posseduta in nessuna forma. Loro. Gli altri, non reagiscono mai. Non hanno che farsene del piacere adrenalinico dell’eroe, quello spavaldo ignaro di essere protagonista della vita di tanti, molti milioni di personcine così, quadrupedi infingardi che la mala sorte volle al mondo per godere in crudeltà.
Una cattiveria naturale, che non aborre il sacrificio delle genti, e se ne frega piuttosto di ogni bisogno. Pregio o agio nel bisogno tutto è uguale. Tutto si agita intorno e si muove invano. Da un lato gli ex potenti, ormai imbecilli nel proprio solito stato, dall’altro la miseria umiliante dell’uomo comune; e sullo sfondo di empie città deserte, che ricolmano di pochezza e solidarietà, gli ospedali, forti come luoghi comuni, un tempo abitati da pazienti e anime pellegrine, oggi devastati dall’incongruenza di sistemi sanitari al collasso.
Chi sono gli abitanti degli odierni ricoveri di fortuna? E i lavoranti indefessi che si ostinano cinicamente votati al dovere? Non vi è compenso che possa soddisfare la vista di quei volti, seppelliti da vivi e senza pietà. Distrutti persino nel ricordo del loro intelletto. Bestie esangui che un tempo furono persona. Cadaveri. Semplici corpi andati a male come il pesce o l’ospite finito il gradimento.
Non c’è del genio in tutto questo, né del senso. Non c’è rabbia, né rancore: non c’è nulla. Ecco la sola cifra che ci appartiene. Un niente vasto e infinito più del male. Un senza perché, un eureka che ha il suono dell’eccome! Un disegno molto naturale… Finita l’era dell’importanza ci si ritrova a piedi e senza carro in pieno fango. Disabituati al benché minimo pensiero, vaghiamo inermi come molluschi fuori dall’acqua. Spersi e dispersi nei residui di superficialità. Figure invereconde accomunate dalla paura.
La paura è un liquido informe che attraversa epoche e generazioni. È il risultato del banale sentire, il boato cieco e sordo che attanaglia le menti idiote e brillanti. La livella infame che ci rende pericolosamente umani. É un balsamo e un salvagente. Ci avvicina alla gente e rende tollerabile il dolore. La paura in sostanza è tutto, tutto quel che ci resta dinanzi all’avvenire. Una piaga senza senso che misura le cose. In questa porzione di mondo in cui non siamo abituati a subire, la paura è ciò che ci resta. Ci equipara ai fratelli e ai nemici e non ci abbandona.
È finita l’esuberanza, esaurita la pena e la buona condotta. Non v’è più nulla a rivitalizzare le membra, carni inutili offerte al macello. Né balsamo, né vaccino all’incomprensione. Del machiavellico nonsense di questa era, non è colpevole il destino. Un fato fatuo come l’avvenire, un legno inerte e bruciato. Un cadavere crivellato di colpi. Una carogna che chiamiamo umanità. Buona per il massacro quando a ricordarne le gesta non è valsa neppure la memoria.
L’uomo non impara e non rammenta. Del sacrificio di un padre non giova il figlio. Si estingue la generazione. Muore il bestiame e la terra si secca. Miserevolmente e senza nutrimento qualcosa nasce e subito dopo ecco che muore. Evviva la vita e il suo tormento. Peccato che ad arrestarci fu un solo alito di vento…