di Giovanni Rosciglione
Nel gennaio 1951 non avevo ancora 9 anni, mio fratello Bruno 4 anni. I tempi, vicini al dopoguerra, erano quelli in cui avevi la sensazione che la vita stava cambiando in meglio, e ogni giorno scoprivi qualcosa e imparavi qualcos’altro.
Mio zio mi portava spesso alla Favorita a vedere il Palermo di Masci, Gimona, Bronée, Vycpàlek e Sukrù. Era molto amico di Mangano e avevo via libera al cinema Olimpia. Quell’anno si inaugurò il Totocalcio con tredici partite da indovinare e con le sue schedine magiche.
Ero in quinta elementare al Santa Caterina da Siena in una palazzina fine ‘800 di via Messina ed io abitavo a Piazza Politeama.
In quell’anno Sindaco di Palermo era il Professore Gaspare Cusenza, famiglia potente e riverita Era il periodo in cui già Gioia, Vassallo, Lima & C. scorrazzavano a Palermo. E presidente della Regione Siciliana era il Professore e Onorevole Franco Restivo, con cui avrei dato l’esame universitario di Diritto Costituzionale.
La mia famiglia votava Partito Nazionale Monarchico di Covelli (non Lauro). In quel 1951 nascevano anche Michele Santoro e Romina Power. Quello che ho scritto può essere utile per capire quale era il contesto in cui vivevo nel 1951.
Come mezzo di comunicazione di massa c’era solo la Radio. La nostra era una CGE di 7 chili poggiata su un tavolino. La stanza aveva un tavolo e molte sedie. Quella sera di gennaio, annunciato da tempo dalla stessa RAI e dal Giornale di Sicilia, il Festival della Canzone Italiana di Sanremo debuttava.
Presentava il palermitano Nunzio Filogamo, gaio e cerimonioso. Un evento. Intorno alla Radio si ascoltavano le canzoni. Solo musica e parole. Diventò subito un aggregatore sociale. Si formarono spontanei gruppi di ascolto. Io, con la mia famiglia, partecipammo al Gruppo Via Vodige 5 (quartiere Matteotti di Palermo).
Ma non era un gruppo di ascolto, bensì l’unico al mondo, credo, gruppo di riascolto. Non c’era Raiplay, non c’era internet, non c’erano registratori. Ma in quel condominio c’era una ragazza, la figlia di una condomina di mia zia Bianca, che aveva una discreta voce e una miracolosa memoria.
Il pomeriggio successivo nel salotto di mia zia la ragazza ci ricantava tutte le canzoni, tra gli applausi della ventina di persone del gruppo. Un successo!
Voi, amiche ed amici, sotto i 60 anni, dovreste capire quindi che per gli Italiani quel Festival era il festoso segnale dell’ingresso nella modernità e dell’approssimarsi del boom. Un’appendice culturale genetica, difficilmente asportabile. Ma poi, perché dovremmo asportarla?
Non sono mai stato un fan del Festival. Più volte ho saltato l’evento. Molte volte, dando un’occhiata ad una delle giornate, ho giudicato mediocri, noiosi, pessimi cantanti, canzoni, presentatori, ballerine e nani. Ma mai mi sono sognato di non considerarlo meritevole di un angolino (piccolo, banale, frivolo) della Storia italiana.
Eppure, da qualche giorno in questo inizio 2020, sui social gira un hashtag che comanda “Boicottiamo Sanremo”.
È leale dirvi subito che non sopporto nessun comandamento col prefisso “NO”: NOMUOS, NOTAG, NOTAP, NO NO NO (come le pupette della canzone). Il NO brucia le recenti ferite del referendum costituzionale di tre anni fa.
Io, se non ho meglio da fare, un’occhiata al Festival la darò. Può darsi che mi diverta e aumenterò le occhiate. C’è Rita Pavone sovranista? Sarò sincero: irrilevante.
Sanremo non produce dipendenza, le canzoni non hanno mai fatto male, gli intellettuali possono vederlo e non diventare analfabeti come Di Maio.
Un solo prefisso NO accetto: #NOBOICOTTARE, ma capire! Viva Sanremo e la musica leggera (quante cose pesanti abbiamo sullo stomaco!).