di Francesco Randazzo
Gianandrea Midulla ha concluso il suo passaggio terreno il 24 ottobre scorso, ottemperando alla ineluttabile legge di natura che impone che qualsiasi cosa nasca poi debba morire.
Senza nessuna tristezza quindi lo salutiamo qui, ma un velo di malinconia ci appanna gli occhi quando pensiamo alla sua instancabile opera di paladino del vitalismo roccioso.
Per tutta la sua vita Midulla ha instancabilmente ricercato una via ecosostenibile, priva di violenza, al problema dell’alimentazione umana.
Ha appena quattordici anni, quando, nella fattoria di suo zio Carmelo, assiste alla mattanza stagionale del maiale, che i suoi tenevano in allevamento dal parente contadino. Come d’uso, da secoli, l’animale venne appeso e sgozzato.
Il sangue che sgorgava caldo venne raccolto in un secchio, per farne successivamente sanguinacci. Le interiora, tutte, con abile mano, lo zio espiantò per utilizzarle in svariati modi di cottura. Poi tagliarono e suddivisero le carni. Con la testa, la zia ci preparò una sugosa e grassa pietanza della quale è meglio non conoscere la ricetta.
Sconvolto e orripilato da tanta violenza, preceduta dall’urlo sovrumano della bestia che presagiva il proprio assassinio, Gianandrea giurò che non avrebbe mai più mangiato carni d’animali uccisi.
Non fu facile in famiglia accettare una simile decisione che andava contro una secolare tradizione carnivora familiare. Sua madre tentò d’ingannarlo proponendogli succulenti piatti di pollo, che asseriva essere morti di vecchiaia. Ma nessun inganno riuscì a distoglierlo dalla sua determinazione. Con grande sconcerto della famiglia, diventò vegano, masticatore di tutto ciò che di vegetale la natura produce.
Provarono almeno a fargli mangiare delle uova, ma lui urlò che erano aborti di pulcini; tentarono con i formaggi, ma lui pianse, e singhiozzando disse loro che migliaia di poveri vitellini morivano privati dall’uomo del latte che avrebbe dovuto nutrirli.
Una volta che accompagnò sua sorella a fare la spesa, davanti a una confezione di patè de foie gras, svenne pensando alle povere anatre torturate fino a fargli scoppiare il fegato.
Masticò insalate, cereali, soia, toufu, seitan, tahin e alghe, con alacre, etica dedizione.
Purtroppo un giorno lesse sulla rivista Scienza e Natura che alcuni scienziati avevano condotto una ricerca sulle emozioni delle piante. Grazie a dei sofisticati strumenti di misurazione, avevano scoperto che anche le piante provano emozioni, gioie e dolori, comunicano tra di loro in modo per noi inudibile, reagiscono insomma esattamente come gli animali agli stimoli esterni.
Erano state misurate e trascritte in diagrammi le urla di dolore di alcune piante cui venivano strappate delle foglie: i picchi serrati a zig zag del tracciato erano sconvolgenti, dimostravano tutta la paura, l’impotenza e l’enorme sofferenza cui le piante erano sottoposte.
Inoltre fu scoperto che potevano morire di paura, con una reazione simile allo svenimento, ma più prossima ad uno stato di morte o sospensione della vita dalla quale a volte, con grandi cure, potevano riprendersi o molto più spesso era il prologo di un definitivo decesso. Gianandrea Midulla fu sconvolto. Per anni si era cibato di carni di animali uccisi con gran sofferenza; poi, ignaro, per molti altri anni aveva torturato e ucciso piante di ogni genere.
Nel silenzio della sua stanza gli parve di sentire le grida di tutti i vegetali estirpati e masticati nel mondo dagli uomini e da sé stesso. Chiunque si sarebbe arreso ma Gianandrea si ostinò a cercare una soluzione. Doveva nutrirsi: ma di cosa?
Scoprì così l’alimentazione pranica e il respirianesimo. Un percorso gioioso di purificazione che alimenta attraverso la respirazione e l’assorbimento dell’energia del cosmo. Abbracciò con entusiasmo questa nuova pratica, praticando bagni d’aria, esponendosi tre volte al giorno, nudo, all’aperto, e respirando a pieni polmoni come un cane affamato.
All’inizio si sentì esaltato e rigenerato da questo nuovo regime di vita. Ma al nono giorno svenne sul balcone di casa e d’urgenza fu portato in ambulanza al più vicino ospedale.
Capì allora che per evitare la sofferenza degli esseri viventi, stava soffrendo atrocemente e sarebbe anche potuto morire. Chiunque, a questo punto, sarebbe tornato sui suoi passi ricominciando a mangiare cotolette, pastasciutta, insalata, patatine e frutta, ma lui no!
Eroicamente resistette e con meritevole accanimento ricercò un’altra soluzione. Esangue e debolissimo, continuò la sua ricerca e s’imbattè nel picacismo, che non è una dieta ma un disturbo psichico che spinge la persona che ne soffre a mangiare pietre (et similia).
Fortunatamente, documentandosi, capì subito che non era una strada praticabile e che anzi portava a gravissime malattie, fino alla morte. Però questa insana pratica gli suggerì un’idea che sarebbe stata decisiva, rivoluzionaria. Pensò bene di non mangiare le pietre ma di leccarle. Avrebbe assunto così, sostanze nutritive, sali minerali, vitamine e aminoacidi che avrebbero nutrito il suo organismo senza far soffrire nessun essere vivente. Cominciò a leccare pietre, rocce, ciottoli, d’ogni tipo, forma e provenienza: calcarea, lavica, carsica, etc.
Inaspettatamente, funzionò. Riprese le forze e per un po’ questo suo nuovo regime alimentare parve essere perfetto. Aprì un canale Youtube intitolato al Vitalismo Roccioso che in pochi giorni raggiunse ben cinquantasette follower sparsi per il mondo. La maggior parte lo insultava.
Oggi sappiamo che il Vitalismo Roccioso, quasi sicuramente, fu un placebo o forse dell’ultimo rigurgito di volontà di vivere del suo stremato organismo.
Tre mesi dopo morì, colpito da un marasma epatico, polmonare, intestinale e renale. Non ci fu niente da fare. Poco prima d’entrare in un rapido e soporoso coma, capì l’atroce verità. La vita sulla terra è una lunga catena alimentare basata sulla sopraffazione di ogni elemento vivente sull’altro, animale o vegetale, l’equilibrio tra uccisione e nutrimento è fondamentale per far sì che ogni specie sopravviva e si mantenga come gruppo vivente che sacrifica e si sacrifica continuamente, senza sopraffare le altre fino al punto di estinguerle. Capì che l’uomo ha rotto irrimediabilmente questo equilibrio.
Morì disperato, sapendo che solo un’ecatombe umana avrebbe potuto ripristinare l’equilibrio. Rimpianse di morire in un ospedale, desiderando di poter morire in una savana o in un bosco per essere poi mangiato da un leone o da un cinghiale. Un istante prima di spirare ebbe l’estrema rivelazione, in un lampo di sconforto e speranza, pensò che forse una guerra nucleare avrebbe resettato il sistema mondiale e la terra avrebbe ritrovato la sua naturale armonia simbiotica tra vita e morte.
Non fece in tempo a pensare al cannibalismo. Un secondo dopo era già morto, ma il suo cervello continuò per sessanta lunghissimi secondi a produrre scariche elettriche sotto forma di rutilanti visioni in forma di prosciutti, mortadelle, abbacchi e borguignonne ribollenti di formaggi, carni e verdure. L’estrema scarica visiva fu un piatto di bucatini all’amatriciana il cui fumo si levò alto come nebbia e repentinamente lo trascinò oltre le porte di Dite.
Maialino nel testo. Photo by Pascal Debrunner on Unsplash
Ortaggi nel testo. Photo by Chantal Garnier on Unsplash