di Enzo Mignosi
Quando ero bambino trascorrevo il tempo libero con i miei amici a esplorare la foresta vergine. Un pezzo di natura selvaggia che aveva una vegetazione fittissima e variegata, ricca di alberi rigogliosi che facevano schermo ai raggi del sole, e un labirinto di sentieri stretti come cunicoli.
C’erano animali e animaletti di diverse specie che non sempre riuscivo a vedere ma la presenza, quella sì, la percepivo. Scoiattoli, rane, lucertole, grilli, uccelli che volavano, altri che saltellavano, colonie di farfalle. Forse pipistrelli.
C’erano anche piccole bisce che si incuneavano dappertutto strisciando sulla terra con un sibilo inquietante, erano innocue ma noi non lo sapevamo, le chiamavamo le serpi nere e credevamo fossero velenosissime.
Ne avevo terrore ma la mia curiosità era troppo forte, e anziché scappare, mi nascondevo e stavo a spiarle in uno stato di massima vigilanza.
Ogni tanto sentivamo strani rumori, i suoni del bosco cupi e misteriosi, che cercavo di interpretare a modo mio. Malgrado tutto, mi affascinavano, ma diventavano sinistri e mettevano paura quando soffiava un po’ di vento. Giocavamo protetti dalle ombre.
Ci arrampicavamo sugli alberi sgusciando tra le fronde con l’agilità delle scimmie e qualche volta ci scappava pure la ferita sanguinante per un colpo di ramo acuminato, ma chi se ne fregava. Conquistando la vetta ci ubriacavamo di gioia e di libertà. Lassù, a tre-quattro metri da terra, ci sentivamo felici, invincibili. Ricordo come fosse ieri. Mi sentivo un Dio. Era il nostro paradiso terrestre.
La foresta vergine si chiamava Villa Sperlinga. Sì, proprio quell’elegante giardino pubblico pieno di aiuole e stradelle in terra battuta che oggi sorge nel cuore residenziale della città, tra piazza unità d’Italia, viale Scaduto e viale Piemonte.
Ma allora, alla fine degli anni Cinquanta, era un’altra cosa. Era Amazzonia. Non c’era niente. Non c’erano palazzi, non c’erano pericoli, non c’erano bulli, teppisti, non c’erano maniaci, non c’era nulla che potesse insidiare la vita dei bambini.
Per strada passava una macchina ogni tanto. E ogni tanto, nel silenzio di quelle giornate, sentivamo da lontano il rombo di un motore che annunciava l’arrivo dell’autobus della Saia numero 38 con tonalità di verde un po’ chiaro, un po’ scuro, che risaliva dall’ultimo tratto di via Pirandello, svoltava a sinistra per via Giuseppe Giusti e, giunto in piazza, girava a destra e lambiva la villa fino a spegnersi al capolinea, poco oltre via Principe di Paternò, al rione delle rose, che segnava l’estremo confine urbano.
Palermo finiva là. Poi cominciava la periferia. Anzi, cominciava la campagna. Da viale Lazio verso la statua era tutta una distesa di verde agricolo. Giardini di arance e di limoni, piante di zagare.
A me piaceva la sponda opposta, via Leopardi, dove ci perdevamo nei grandi campi di papaveri gialli e rossi in un’esplosione di colori e profumi. Profumi di muschio, di terra. Profumi di vita. Dicevano che in quel quartiere non c’era niente. E invece c’era tutto.
In copertina, Jacarande fiorite su via Isonzo, asse principale del Quartiere Matteotti a pochi passi da Villa Sperlinga. Oggi in pieno centro e soffocato da palazzoni, ma era l’estrema propaggine di Palermo dagli anni ’30 agli anni ’50. Foto di Giovanni Rosciglione (2018).