di Gabriele Bonafede
C’è un posto magico a Palermo. Più precisamente a Mondello. È l’atelier di Guido Baragli, nello stesso luogo dove è nato il pittore, in un Natale di alcuni decenni fa.
Quell’atelier non è solo un concentrato di arte. È l’esplosione della luce e del colore, del chiaro Mediterraneo al mattino, della tenebra e l’ombra che lo esalta, del crepuscolo europeo che lo avvolge. La penombra del volto inconsueto a chilometri da casa nostra, eppure così vicino.
È la pioggia londinese e la grisaille di Parigi. È la spiaggia urbana di Marsiglia simile a Palermo, la roccia marina in movimento, laggiù in fondo, tra le mura chiuse dello Château d’If riaperte da Dumas. La durezza di Berlino, l’orizzonte rosa delle ostriche bretoni, e quello azzurro del pesce di Mondello.
È il popolo che urla, è la donna che lascia la sua posa, la natura morta che incombe di vita ancora lucida e nebbiosa. La barca che rimane ancorata in un angolo del mondo. È lo scatto d’immagine di ritorno, qui accanto, sulla nostra costa di ogni giorno.
Lì, in quell’atelier, sembrano ricomporsi tutte le teorie e le percezioni di un viaggio attraverso un intero continente: il nostro continente, aperto e chiuso al tempo stesso, innalzato a inno floreale musicato e tuttavia riportato alla natura di frutti che più non sono, eppure saranno sempre.
Nell’atelier, e nel conversare con l’autore di quelle opere, ritrovi un concentrato di tutti i viaggi che puoi fare in giro per il Mediterraneo e per l’Europa. Non solo i viaggi realizzati fisicamente, ma soprattutto quelli fatti idealmente, persino senza muoversi da qui. O tornandoci, attratti da un magnete al quale è impossibile resistere a reiterarne la presenza.
E tutti i viaggi, tutti le percezioni di un movimento naturale e mentale a tempo stesso, sono espressi attraverso la pittura. Cento opere? Molte di più, in realtà. Perché ognuna ha più facce, più opere, più “strati” o “chilometri” di pittura come ama definirli Guido stesso. E sono chilometri e riflessioni concentrate e ripetute e riscoperte, ogni volta in maniera diversa, in ogni solido centimetro di tela e di colore. È, a dirla tutta, una grande, ossessiva, e liberatoria storia.
Da domani, questa storia, quel grande viaggio che è l’atelier, o meglio l’opera di Guido Baragli, sarà fruibile al pubblico a Palazzo Riso. Quell’atelier, e ciò che ha emanato e diffuso in lungo e in largo per decenni, sarà dunque a disposizione, traslato nel museo urbano al centro di Palermo. In un Palazzo-museo, già tornato e riscoperto più imponente. Molto più imponente di quella statua che si erge piccola ai suoi piedi: Carlo Quinto, imperatore senza tramonto in terra in quei secoli che furono.
“La mostra comprende più di cento opere, scelte per raccontare il percorso del pittore dal 1981 fino ai giorni nostri e avrà la durata di due mesi”, così lanciano la mostra i curatori, Geraldina Albegiani e Bernardo Quaranta.
“Il percorso espositivo – continua la presentazione – si articola tra il piano terra e il primo piano di Palazzo Belmonte Riso, sede del Museo d’Arte Moderna e Contemporanea della Regione Siciliana. La pittura di Guido Baragli racconta attraverso la luce del Mediterraneo i “luoghi comuni” della pittura, così come egli stesso ama definirli, generi classici visti con occhio contemporaneo e interpretati con profonda consapevolezza storica e coscienza critica: gli autoritratti, le nature morte, i paesaggi, le barche dei pescatori di Mondello, i pesci, i temi epici e i soggetti sacri compongono gran parte del repertorio della sua produzione.”
Come Baragli stesso afferma: “La ripetizione del soggetto libera la pittura da ogni altro dovere se non quello della pittura stessa”.
In copertina, Guido Baragli nel suo atelier di Mondello. Foto di Giulio Azzarello, copyright 2014, tutti i diritti riservati.