di Vincenzo Pino
Nasce sotto un buon auspicio la fase primaverile della vita politica del Paese, se è vero che i sondaggi registrano quasi unanimemente il sorpasso del Pd sul movimento pentastellato. Un risultato per niente scontato, visto che solo un anno fa il Movimento Cinque Stelle aveva quasi doppiato il Pd e si presentava come la rappresentanza dei cittadini italiani cui non si poteva negar nulla.
Con questa pretesa, dopo aver avuto il rifiuto della Lega, si presentarono all’uscio del Pd, definito “secondo forno” (che delicatezza Toninelli) per incassarne la rendita.
E furono in tanti nei piani alti del Pd a prospettare che sì, “il prezzo era giusto”, se ne poteva parlare, magari la leadership poteva andare a loro ma non certamente a Di Maio quanto a Fico, che nel frattempo avrebbe liberato la carica di Presidente della Camera che magari poteva essere occupata da qualcuno del Pd.
LeU uscita massacrata dalle elezioni era in brodo di giuggiole. Poteva rientrare in gioco avendo puntato tutto sul ridimensionamento del Pd e sulla caccia al voto pentastellato, per definizione “di sinistra”. E non essendoci riuscito poteva almeno puntare a questa alleanza per bloccare “l’insorgenza della destra” formula che dà loro il lasciapassare per fare qualsiasi operazione tattica e trasformistica.
Dopo, il popolo Pd schiantato dalla sconfitta avrebbe dovuto subire l’attacco convergente di tutte le forze politiche che si erano sperimentate solidali nel “No”. L’umiliazione di dover condividere l’orizzonte politico con i capofila di quest’attacco che non avevano mancato di arricchire con epiteti del tipo “pdioti” e “pdladri” e persino “mafiosi”. Si arrivò persino ad una iconografia che rappresentava Di Maio come “novello Berlinguer”. Povera Storia.
Insomma, si prospettava una resa senza condizioni, consegnando non solo i combattenti che pure avevano conseguito il 18,7% al nemico, ma anche le loro bandiere e pezzi della loro storia. Di fronte a tutto questo si levò la voce apparentemente isolata del “fiorentino tosto” che con un semplice intervento in Tv fece saltare tutto.
Immaginiamo cosa sarebbe successo se questo non fosse accaduto. Il Pd avrebbe dovuto rinnegare tutta l’esperienza dei cinque anni precedenti, trattare sul No Tap, No Vax, no Ilva, no Tav.Avrebbe dovuto confrontarsi con la decrescita felice, fatta di non-lavoro e sussidi. Insomma il Pd si sarebbe ridotto a qualcosa che somigliasse a Forza Italia che, inseguendo Salvini, gli ha ceduto nel giro di un anno quasi metà del suo elettorato.
E invece no. Il Pd, grazie a Renzi e al movimento “senzadime” ha resistito a tutte le sirene politiche e mediatiche, mantenendo la sua forza elettorale. Mentre al contrario i Cinque Stelle hanno perduto quasi la metà dei consensi nel giro di un anno e questa china sembra non arrestarsi mai.
Oggi la situazione è profondamente diversa. Si registra il soprasso del Pd sui Cinque Stelle. Né le principali cariche istituzionali, che provvidero immediatamente a spartirsi con la Lega e Forza Italia, né la leadership di governo hanno arrestato il crollo dei grillini.
Ma attenzione, il sorpasso è avvenuto essenzialmente per l’arretramento del M5S e non tanto per la crescita del Pd. Che, come si sa, in relazione ad appuntamenti importanti come le primarie (stupidi quelli nel Pd che sparano addosso a questo istituto) cresce sempre di alcuni punti percentuali.
Perché da oggi il problema diventa un altro: come recuperare il gap con la destra a trazione salviniana che ha almeno 15 punti in più del centro sinistra. Un vantaggio che la destra nel suo complesso ha fatto valere non solo nelle recenti elezioni regionali dove ha strappato al Pd Friuli e Molise a ridosso delle elezioni del 4 marzo, ma anche in Sardegna ed Abruzzo a distanza di un anno dal cambio di direzione e di leadership. E certo, qui, le politiche, le liste e le alleanze non le ha fatto certo Renzi.
Per chi avesse l’attenzione e la voglia di analizzare i flussi elettorali dal 2014 al 2016 troverebbe che il Pd a partire dall’insediamento di Renzi, al governo e come segretario del Pd, marciava a dieci punti in più rispetto al centro destra. Sia a livello nazionale che in tutte le occasioni elettorali regionali di allora.
Si disse, da parte di certa sinistra, che questo era l’effetto di uno spostamento al centro del Pd e di un avvicinamento alle posizioni berlusconiane. “Renzusconi”, si definì il fenomeno.
Quelli che con Berlusconi si ci erano alleati sul serio nel governo Monti e quello Letta protestavano paradossalmente contro Renzi che invece mai quell’alleanza fece, essendo il suo governo frutto della rottura di Forza Italia.
Ma si sa. In certa sinistra si pretende di scrivere la storia al contrario: dallo stai sereno di Speranza (il principale artefice della defenestrazione di Letta), all’articolo 18 di Bersani che provvide lui a depotenziare nel 2012, accollandolo poi a Renzi, alla Camusso che inveiva contro i voucher. Vucher che utilizzava. Camussi che pretese, come ottenne, la totale abolizione dal governo Gentiloni, ma poi se li accollò quando Di Maio glieli reimpose nel decreto dignità.
Un suggerimento a Zingaretti. Non creda che si potrà definire un successo una eventuale collocazione alla Europee, del Pd attorno al 20%, sarebbe una sconfitta totale se rapportata al 40,8% del 2014. Il 20% da cui parte il Pd è il patrimonio ereditato da Renzi nelle elezioni del 4 marzo e che ha provveduto a non dilapidare con le operazioni inciuciste ed innaturali di cui si è parlato,
Vedremo dove lo porterà la nuova direzione, se il suo schema è quello della captatio benevolentiae nei confronti di LeU e dei pentiti Cinque Stelle, prevedo che si potrà aggiungere qualche decimale all’attuale consistenza del Pd. Se si proponesse invece di conquistare il voto moderato, cosa che l’attuale segretario non ha fatto per nulla nel Lazio, dove ha perso il 4 marzo del 2018 otto punti percentuali, il discorso sarebbe un altro.
Al momento non c’è nulla che gli assegni un qualche palmares di vincente e di inclusivo. Quello lo danno le elezioni e non solo le primarie. Buon lavoro.