di Valeria Sara Lo Bue
Una lezione me la diede anche Benito. Insieme a mia nonna Sasà. Viveva al Capo, da generazioni, almeno venti anni fa, e lo avevano chiamato Benito per prendere i soldi dallo Stato, durante il periodo fascista.
Con la sua pensione per un periodo si era pagato la casa di riposo ma dopo un po’ se ne era tornato a casa e campava tutta la famiglia di sua nipote, che gli portava da mangiare e da fumare e gli dava qualche spicciolo che lui spendeva alla taverna. Costruiva bric a brac con i fiammiferi.
Carretti, bottiglie ripiene di immaginette sacre, oggetti che per quanto carichi di tutti i cliché dell’isola, risultavano barocchi ma inspiegabilmente non leziosi. Un paio glieli feci piazzare fra i parenti. Diventammo amici.
Ragazzina, di un’ingenuità e una curiosità quasi insopportabili e discretamente pericolose, mi lasciai accompagnare in tutti i luoghi nei quali si svolgeva la sua vita. Il suo catoio (che corrisponde al basso napoletano, un “loft” che odorava di gabinetto), la taverna del quartiere, ancora lontana dal pensiero del turismo, i meandri della vendita di contrabbando. Lui si fidava di me e io di lui. E un giorno lo invitai a casa mia, per Natale.
Benito era tavernaro e analfabeta e non aveva alcun motivo per non esserlo. Io però non lo capivo, allora. “C’è tutta la mia famiglia, per favore, lavati e non bere” gli avevo detto. Venne, mangiò poco e bevve vino, molto. Ricordo che mi sentivo tradita nella mia amicizia e responsabile nei confronti dei miei parenti di aver portato un estraneo in casa che non sapeva comportarsi bene.
Mi misi a piangere e lo rimproverai davanti a tutti. Allora mia nonna Sasà, quasi novantenne, si addivanò e ci mise uno da un lato, lui almeno sessantenne obbedì come un bambino, e una dall’altra. A me disse che non era successo nulla, che era festa, e Benito per la felicità si comportava così.
A lui disse “u ficatu s’u mancia r’accussì. A picciridda chianci pi chissu” (“Così si mangia il fegato, la bambina piange per questo”).
Coi suoi modi barocchi e fumosi, Benito, ubriaco, cominciò allora a baciare le mani di mia nonna, che ovviamente si divincolava, e prese a piangere pure lui. “Nonna, nonna” diceva. Una sceneggiata, ma infantile e autentica. La giornata passò e lo riaccompagnammo a casa.
Devo dire che a casa dei miei non lo invitai mai più. Andai qualche altra volta a trovarlo ma poi, fra la scuola e i fidanzati, me ne dimenticai. Venni a sapere qualche anno dopo che era morto. Ci sono ancora in giro i suoi carretti. E oggi mi è venuto in mente, non so perché.
Sempre saggia la nonna Sasà. Ho pensato che la vita e Palermo mi hanno concesso privilegi enormi, per questo le amo profondamente.