di Vincenzo Pino
Sarà impossibile nelle prossime elezioni nascondere la testa sotto la sabbia e non fare i conti col risultato delle Europee del 2014 del Pd, il 40,8%.
Proviamo a declinare i motivi di successo di quella esperienza che faceva seguito ad una fase di delegittimazione del complesso delle forze politiche tradizionali uscite dalle urne alla politiche del 2013, quando si affermò come primo partito il movimento Cinque Stelle e non si riuscì neanche ad eleggere il Presidente della Repubblica.
La svolta renziana si affermò innanzitutto come novità ed elemento di rottura rispetto al tran tran ripetitivo ed inconcludente dell’azione di governo precedente (Letta) in cui la coabitazione forzata e necessitata del Pd con Berlusconi e Forza Italia appariva in continuità con quello che gli elettori avevano rifiutato alle urne nel 2013.
Non si è trattato di un fatto marginale. Avere escluso Berlusconi dalla compagine di governo ed avere rinnovato con facce nuove e giovani il panorama politico, al contrario, è sembrata una risposta adeguata all’elettorato italiano che non mancò di vidimarne il successo al primo appuntamento utile, le Europee del 2014.
In quella occasione il Pd polarizzò il voto non solo da parte delle fasce medio basse del lavoro dipendente con gli 80 Euro ma riuscì anche ad essere punto di attrazione per il mondo delle imprese in particolare di quelle medio piccole che cercavano di uscire dalla condizione di difficoltà e ristrettezza a causa della crisi del 2011.
Significativo fu da questo punto di vista il successo del Pd in aree come il Veneto cui era arrivato un messaggio di cambiamento rispetto alla impotenza berlusconiana a governare la loro crisi, ma anche rispetto al tradizionale fiscalismo statalista che ne aveva debilitato ulteriormente la forza con il governo Monti.
A fronte di questo successo di consenso si cominciò da parte delle forze di conservazione a svalorizzarne il senso. Gli 80 Euro una mancetta elettorale si disse, ad esempio, che sarebbe stato presto cancellata perché non “strutturale” .
Quello che invece si sottintendeva da parte delle centrali sindacali e della Cgil in particolare era il fatto che unilateralmente il governo era intervenuto in un campo che ritenevano di loro esclusività, senza una trattativa ed i tradizionali rituali concertativi.
Era la capacità decisoria del governo (peraltro in un campo che attiene all’azione di governo e Parlamento, quello appunto, della fiscalità generale) ad essere messo in discussione. Avviando una polemica senza fine che faceva sembrare quasi negativo il provvedimento, quando con la successiva dichiarazione dei redditi, solo il 9% dei beneficiari lo persero.
Ma non fu solo in questo campo che l’insorgenza anti governativa da parte di certa sinistra sociale picchiò pesantemente. Il “Jobs Act”, ad esempio, venne presentato come una passerella per le imprese per avviare licenziamenti di massa mentre tutto questo è risultato falso.
Nel 2016 la quota di licenziamenti sul totale passò dall’1,4 all’1,6%, in relazione a due fattori. Una gran massa di nuove assunzioni (quasi 600mila a tempo indeterminato) con qualche fisiologico abbandono nel periodo di prova (si vedano su questo gli studi di Piero Ichino). Mentre invece fu abolito, ancora, il licenziamento in bianco che imperversava come ricatto nel mondo del lavoro.
Per cui un ulteriore misura che estendeva diritti ai lavoratori sotto i 15 dipendenti fu rappresentata come un fatto profondamente negativo che permane ancora oggi quando si imputa al governo Renzi la precarizzazione del mondo del lavoro che invece fu limitata attraverso anche l’abolizione di tutta una serie di istituti (co.co.co e co.co.pro, le false partite Iva) che, prima di Renzi, imperversavano nel mondo del lavoro.
Ovviamente l’isolamento governativo realizzato da questa narrazione, amplificata a dismisura da certa stampa, provvide a ridurre l’attrattività del disegno riformatore, dispiegatosi anche nel campo dei diritti civili, nel sostegno alle situazioni di disagio (il “dopo di noi”) facendo leva su qualsiasi elemento di difficoltà che si manifestasse nel paese.
E oggi cosa si direbbe?
Conclusa l’operazione di distruzione dell’impegno riformatore certa “sinistra sociale” non ha avuto alcun ritorno in termini di consenso alla propria azione. Il 3,4% di LeU ed il suo dissolvimento ne sono la prova provata.
Come pure la guerra interna al Pd che ha riconsegnato il 4 Marzo un partito indebolito. Ma non distrutto, se è vero che ha subito una scissione mentre nel 2013 questa non c’era stata.
Certo, il Pd è passato dala prospettiva di “partito della nazione”, come veniva chiamato in maniera irridente, al “partito della fazione”, in cui prevale, invece, la frammentazione e la divisività, vista la storia recente.
Un partito del 15% lo etichetta Calenda.
Ma non sarebbe, invece, il caso di riprendere il cammino che ha portato il Pd al successo europeo del 2014 con uno schieramento meno identitario e più’ aperto? In cui possano trovare spazio nuovi protagonismi che non siano solo quelli ereditati dalla tradizione novecentesca?
Lo schema destra-sinistra come l’abbiamo conosciuto e come lo vogliono rappresentare gli sconfitti della storia (alla Bersani o D’Alema) non esiste più. Abbiamo a che fare con categorie nuove come il populismo, il sovranismo, il ruolo della Ue nella fase della globalizzazione e dell’esplosione del fenomeno migratorio.
Ed esiste un grande spazio di opposizione rappresentato oggi dalle iniziative e le manifestazioni di Torino e Roma: dal civismo alla Pizzarotti, dal riformismo cattolico alla Lorenzin, escluso da Zingaretti nel novero delle alleanze in Lazio .
Tutto questo chiede rappresentanza politica e non sarà un Pd che rifiuta la sua storia ed i suoi successi (grazie anche a loro in passato) a potersi riproporre dopo la delusione post 2014.
Gli elettori si erano fidati del Pd nel 2014. E le occasioni perdute non tornano più negli stessi termini: se il Pd non ritrova il profilo cancellato innanzitutto da certa sinistra sarà un insuccesso alle prossime Europee.
E con un partito così uno schieramento liberaldemocratico rischia di essere competitivo col Pd (da qui la battuta di Calenda) per coprire quello spazio che è rimasto vuoto dall’assalto al “Partito della Nazione”.
In copertina, Matteo Renzi e Giusy Nicolini alla Porta d’Europa o Porta di Lampedusa (nell’isola di Lampedusa), il monumento voluto Arnoldo Mosca Mondadori, editore, e di Amani, ideato da Domenico Paladino.