Faraone nuovo segretario regionale in un contesto che va ben oltre l’Isola
di Giovanni Burgio
Adesso il quadro è chiaro e la risposta pronta. A chi mi chiede “Cosa è successo nel PD siciliano?”, so cosa rispondere. Pura lotta di potere, esasperata ricerca del potere. Voglia indiscussa di tenere ben salde le mani sul volante della macchina. E infatti la posta in gioco era “Chi dirigerà il Partito nel futuro? Chi guiderà questo Partito di centrosinistra?”. Quello che è accaduto in queste ultime settimane in Sicilia non è altro che questo.
E non c’è un implicito giudizio negativo in questa risposta, anzi. Qualsiasi studente di Scienze Politiche dei primi anni di università sa che la “Politica” è la scienza del potere; che la Politica è l’arte del potere; che la Politica è la più importante delle attività umane. E in un’epoca in cui alla Politica si associano i peggiori aggettivi, bisogna ricordare e riaffermare il significato di questa parola.
Quindi quello che è successo nell’Isola all’interno del PD, non è altro che inveramento della “Politica”. E perdipiù, e come al solito, quello che avviene in Sicilia, non solo precede e anticipa quello che accadrà in campo nazionale, ma assume quel carattere di radicalità e visceralità tipico del nostro modo di essere, mettendo a nudo la vera essenza dei problemi.
Il principale dei quali, al momento per il PD, sembra essere il seguente: se la linea politica di Renzi e il suo modo di concepire il partito continueranno a resistere dopo il congresso, allora non sarà necessaria la nascita di una nuova formazione politica guidata dall’ex premier. Se invece Zingaretti sarà eletto segretario, il Partito di Renzi verrà inevitabilmente alla luce.
Questo nodo essenziale è stato al centro dello scontro congressuale siciliano, e che qui, nell’Isola, ha mostrato la sua esemplificazione elementare.
Inizialmente è sembrata profilarsi l’elezione di Giuseppe Bruno o Gandolfo Librizzi a garanzia di una segreteria “unitaria”, che avrebbe cioè visto le due componenti contrapposte, “renziani” e “antirenziani”, rinunciare a un proprio candidato di parte. Ipotesi accettata, o comunque non palesemente osteggiata, da Faraone e compagni. Improvvisamente, però, la candidatura alla segreteria dello stesso Faraone ha sorpreso tutti e determinato un’inversione di 360 gradi delle varie posizioni. E il tavolo si è rovesciato, e tutto è saltato per aria. Ma si è anche chiarito definitivamente quali fossero i due schieramenti in campo.
Da una parte, i “renziani” Doc più i “Partigiani Dem”. Dall’altra, tutti gli avversari di Renzi: gli “zingarettiani” Lupo, Cracolici, Crisafulli, Speziale, ecc., i “richettiani”, gli “orlandiani”, e vari altri gruppi. Antirenziani che hanno avanzato la candidatura di Teresa Piccione.
E così i contendenti si sono fronteggiati aspramente e duramente, con tutti i mezzi e le armi a disposizione: rinvii dei congressi provinciali, autoconvocazioni, ricorsi, controricorsi, norme statutarie, norme regolamentari, commissioni regionali, commissioni nazionali, comitati di garanzia, comitati di controllo, ecc. ecc. E a quanti più commi e sottocommi si faceva appello, tanto più l’ingenuo militante ritornato dopo la sconfitta e il più attento simpatizzante, arretravano e non capivano più niente.
Alla fine, il ritiro della zingarettiana Piccione e l’annullamento delle primarie, hanno condotto alla proclamazione di Davide Faraone quale nuovo segretario regionale.
E il dibattito fra gli iscritti? Il confronto nei circoli? Quali erano le differenze fra i due programmi? In che cosa consistevano le diverse linee politiche? Quali sarebbero state le future alleanze con altre forze presenti all’Assemblea regionale?
Aldilà delle forti accuse reciproche e delle eccessive esemplificazioni tattiche, nessuna delle due fazioni ha potuto credibilmente rispondere a queste domande. Infatti, nessuno poteva sinceramente proclamarsi tenace e duro oppositore dei governi nazionali e regionali degli ultimi dieci anni (Monti, Letta Renzi, Gentiloni, a Roma; Lombardo e Crocetta in Sicilia).
Nessuno è stato immune dal sottoscrivere accordi e stipulare compromessi. Tutti hanno commesso errori e sottovalutazioni. Tutti si sono barcamenati e hanno galleggiato nell’oscura e mefitica macchina regionale. Ogni singolo dirigente è responsabile dell’attuale situazione di paralisi e confusione in cui si trova il partito regionale.
Non è inutile ricordare che il PCI-PDS-DS-PD, da solo e con il proprio simbolo, non ha mai raggiunto nelle tre principali città dell’Isola una percentuale superiore al 6-7%; che la dirigenza politica regionale non ha quasi mai ricoperto importanti funzioni nazionali; che il Partito siciliano sin dal dopoguerra è sempre stato “sotto la sorveglianza” di Roma.
E che l’unico punta di forza, il PD siciliano, lo trova nelle provincie agricole produttive dell’Isola: Agrigento, Caltanissetta, Enna, Ragusa e Siracusa. Una situazione critica, quindi, che viene da lontano. Un futuro che speriamo essere meno arrendevole e opaco del recente passato.