di Vincenzo Pino
Riemerge, dalle nebulose delle sconfitte di questi anni, D’Alema. A dettare la linea politica a Zingaretti, sostenuto in questo da Cacciari.
L’ossessione del duo è ricomporre il vecchio schema novecentesco sinistra-destra, riesumando a questo proposito il fantasma di Berlusconi e del prossimo “probabile” governo forzo-leghista.
Occorre dire che alla ricostruzione di questo schema è molto sensibile anche lo stesso Silvio cui sarebbe offerta in questo quadro una qualche possibilità di riesumazione politica.
Infatti, proporzionale e schema destra-sinistra rimettono in gioco gli sconfitti dell’ultimo decennio, quelli alla D’Alema che hanno distrutto la vecchia vocazione riformista di quando dirigevano la ditta e che hanno portato al rovinoso esito del 2018. Ma anche quelli alla Berlusconi che comincia a propagandare il suo valore elettorale dell’8% e fa ripensare alle vecchie ambizioni di quando aspirava invece a rappresentare la maggioranza degli italiani.
Certi personaggi non si smentiscono mai. D’Alema col suo 1% continua a fare lezioni di politica. Berlusconi, che almeno ha ridimensionato le sue ambizioni, se ha ceduto il Milan può sempre dire che la squadra ce l’ha, anche se ora si chiama Monza… Insomma costretti ancora a legittimarsi l’uno nei confronti dell’altro (con o contro non importa), appassionatamente come da ultimo ventennio.
Di fronte a questo pietoso scenario cui i mass media si rivolgono per riempire le cronache politiche, vi è però un dato inoppugnabile con cui si confronta il prossimo appuntamento elettorale: il 40,8% conquistato da Renzi nel 2014. Non vi è alcuno spazio per sfuggire a questo nodo che indicherà plasticamente da dove si parte per valutare poi i risultati.
Si è detto che questo risultato ha rappresentato una sorta di sciagura per la sinistra perché avrebbe inglobato, valori e consensi della destra ragionando sempre col vecchio schema novecentesco.
Ritorniamo alla essenza della cronaca politica di quegli anni, immediatamente precedenti a quel risultato, fase in cui l’insieme delle forze politiche tradizionali non riusciva ad esprimere un Presidente della Repubblica. Tutto i panorama delle forze politiche tradizionali veniva additato come il principale responsabile della rovina del paese ed era inseguito da rappresentazioni da incubo nelle regioni come quella di Fiorito e delle feste in costume pagate dalla Regione Lazio.
Un brodo di coltura su cui i Cinque Stelle imperversvaano fino a far nascere, nel 2013, una formazione che riuscì quasi a contendere alle due coalizioni di centro destra e centro sinistra il primato elettorale.
E poi, invece, in alcuni mesi di governo Renzi, avvenne quasi un miracolo: un Pd che appariva rigenerato dal salto generazionale, la politica che cominciava a connotarsi come guida della comunità, che interveniva sulle principali conseguenze del periodo di austerità col messaggio degli 80 Euro, del rilancio produttivo ed il sostegno alle imprese. Ed infine, la ripresa di sovranità economica del paese a fronte di un triennio plumbeo orchestrato dall’unico luogo in cui si decideva per l’Italia, l’arcigna Europa di Barroso.
Questo passaggio determinò nel giro di una anno, una crescita del 15% del Pd, un ridimensionamento inaspettato del grillini, una decadenza del berlusconismo ormai invecchiato, un dissolvimento della Lega che annegava negli scandali bossiani.
E’ stato il periodo in cui parte del tessuto imprenditoriale, in particolare le piccole e medie imprese del Nord est, cercavano una nuova rappresentanza in politica, i lavoratori si aprivano alla speranza dopo anni di blocco alla contrattazione, in cui vi un balzo notevole nelle assunzioni che invertirono la tendenza alla perdita che si prolungava dal 2008.
In cui il Pil assunse un valore positivo, in cui il Pd che aveva il maggior gruppo parlamentare in Europa, contribuì a cambiarne l’orientamento sotto la guida di Junker.
Insomma l’Italia aveva ritrovato un centro di gravità stabile a fronte della crisi di rappresentanza politica che aveva subito negli anni precedenti.
Ma tutto questo cozzava contro gli schemi novecenteschi per cui questa centralità divenne immediatamente “il partito della nazione” (come se fosse una bestemmia ) e tutto il quadro della conservazione in Italia cominciò a riorganizzare le fila per evitare questo sviluppo. A partire da certa sinistra che rinnegò tutto il suo impeto riformista nel giro di qualche mese.
Il Bersani, stimato ministro delle liberalizzazioni, divenne il custode dell’articolo 18, lui che lo aveva ridimensionato due anni prima con legge 92/2012 ed imputando tutto questo a Renzi, che invece lo mantenne inalterato.
E la stesso la Camusso che aveva ridimensionato nel 2012 la protesta contro l’abolizione dell’1rt. 18 riducendo le 16 ore di sciopero approvato nel Direttivo nazionale Cgil a solo 4 ore ed a fine turno.
Il jobs act poi che divenne il simbolo del precariato nella rappresentazione di certa sinistra alimentata dalla grancassa pentastellata quando invece ne aveva soppresso le forme più diffuse (cocopro e cococo), ed aveva esteso diritti ai lavoratori al di sotto dei 15 dipendenti.
La narrazione da parte di un vasto schieramento politico divenne il contrario di quello che in effetti succedeva.
La richiesta di ridimensionare il numero dei distacchi sindacali divenne un attacco al sindacato. Il 730 on line e e il canone Tv, furono rappresentati come un attacco dello stato, alla privacy dei cittadini.
Fino alla riforma costituzionale in cui la Cgil cambiò i deliberati del comitato direttivo del Maggio 2013 (che ne appoggiava la finalità) e stravolse le stesse basi su come aveva avviato il congresso e la stessa candidatura della Camusso che si reggeva su una mozione di appoggio alla stessa riforma costituzionale. Che vergogna da trasformismo.
Sostenuti da Onida che era stato l’estensore del documento di sintesi di riforma costituzionale su incarico di Napolitano e che divenne poi uno dei capofila del No al Referendum costituzionale.
E così si sfaldò il progetto di rinnovamento del paese e successivamente lo stesso Pd il 4 Marzo 2018.
E finalmente nella testa di qualcuno si potrà ricominciare col giochino delle alleanze, con la ricerca di pedigree per individuare il tasso di sinistrismo delle forze politiche avversarie (lo sta facendo Zingaretti coi Cinque Stelle come lo fece D’Alema quando definì la Lega una costola della sinistra) e poter cancellare l’esperienza del riformismo limpido in Italia.
Vedremo se questa operazione di ritorno al passato riuscirà ma si sappia che se l’intento del nuovo gruppo dirigente che uscirà dalle primarie sarà questo non avrà speranza di successo.
Sia nel Pd che nel panorama politico del paese c’è uno zoccolo duro riformista che si è consolidato in questi anni (qualcuno lo misura in doppia cifra) che avrà voce in capitolo alle elezioni europee.
Come questo si esprimerà elettoralmente non è dato sapere anche se c’è chi intelligentemente prova ad occuparne lo spazio (Calenda in particolare): quello che è certo è che il 40,8 del Pd del 2014 sarà assai lontano.
E se vi sarà un insuccesso del Pd in questa prossima tornata elettorale, il Pd avrà esaurito la sua missione storica, nonostante solo cinque anni prima avesse registrato il più grande dei successi.
Che destino amaro.
Foto in copertina tratta dalla pagina Facebook del Parlamento Europeo.