di Pasquale Hamel
Un mese prima dello sbarco di Garibaldi a Marsala la decisione, assunta dai Borbone, di fucilare i ribelli della rivolta della Gancia, ha qualcosa di poco chiaro. Quando, infatti, il generale Salzano De Luna, comandante borbonico della piazza di Palermo, insieme al direttore di polizia Salvatore Maniscalco, il 4 aprile 1860, comunicarono la notizia della rivolta e dell’arresto dei responsabili a Napoli, il re Francesco II convocò il consiglio di guerra per stabilire il da farsi e per decidere la sorte dei tredici arrestati.
Quel Consiglio di guerra, al quale parteciparono i principi del Cassaro, di Castelcicala e di Comitini oltre al cavaliere Giovanni Cassisi, già ministro per gli affari siciliani, trovò i convocati quasi unanimi nel chiedere la pena capitale per quanti avevano osato ribellarsi ed erano caduti nelle mani della polizia borbonica.
Il cavaliere Cassisi, che conosceva molto bene la situazione siciliana, fu l’unico a manifestare forti perplessità sulla proposta di pena capitale.
Egli spiegò al giovane sovrano, come in altre occasioni simili alquanto confuso sulla decisione da assumere, che un atto di clemenza sarebbe stato ben accolto e avrebbe giovato all’immagine della monarchia borbonica, concludendo con un’affermazione forte e, cioè, che “la grazia avrebbe fatto più effetto di qualunque rigore”.
Il re sembrò convinto dalle parole del ministro e dichiarò, chiudendo la seduta per evitare ulteriori discussioni, che la sua decisione, contrariamente al parere della maggioranza, sarebbe stata improntata alla clemenza. Conclusa la riunione Francesco, quello stesso 4 aprile e alla presenza di numerosi dignitari, dettò al segretario un telegramma urgente da spedire al generale Salzano comunicando la decisione di concedere la grazia ai condannati.
Il mistero riguarda proprio il momento successivo alla spedizione del telegramma. Il 14 aprile infatti, i tredici prigionieri furono fatti uscire dal Castellammare e, dopo avere ricevuto i sacramenti, addossati ad un muro di Porta San Giorgio e, in malo modo, per essere fucilati. Scrivo in malo modo perché uno di essi, tale Sebastiano Camarrone, che negli atti risulta fra gli arrestati alla Magione, fu solo ferito grazie ad un Crocifisso e ad altri oggetti sacri che nascondeva sotto la camicia.
Era regola che chi fosse sopravvissuto alla scarica di fucileria, dovesse essere graziato ma, contravvenendo ad essa, il comandante del plotone d’esecuzione, spinto dal Maniscalco, ordinò ad un chierico di sequestrare quanto nascondeva sotto la camicia e, fatto questo, provvide barbaramente a finirlo con un colpo di pistola alla testa.
Tornando al telegramma, ci si chiederà come mai sia potuto accadere tutto questo? quel telegramma di Francesco fu realmente inviato e i ferocissimi Maniscalco e Salzano non ne tennero conto o piuttosto, il re spinto da qualcuno ebbe un ripensamento?
La risposta si potrebbe ricavare da indiscrezioni dello stesso cavaliere Cassisi che assistette, non visto, ad una conversazione riservata, fra il principe del Cassaro e il sovrano, nel corso della quale il principe faceva presente all’ondivago Francesco che, senza un rigoroso esempio, quegli incresciosi episodi si sarebbero ripetuti. Noi possiamo solo dire, però, che di quel telegramma del 4 aprile, finora, non è stata trovata traccia alcuna.
In copertina, Palermo, Chiesa della Gancia, particolare. Foto di Igor Petyx
Nel testo, prima immagine. immagine tratta da Wikipedia. Di ignoto – Storia dell’insurrezione siciliana e avv. succ. di Giovanni La cecilia, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6384766
Nel testo, seconda immagine. la fucilazione dei 13 prigionieri nell’area dell’odierna Piazza XIII Vittime a Palermo. Immagine tratta da Wikipedia. Di ignoto – I Mille di Marsala di Giacomo Oddo pag. 99, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6384863
Va registrato che la notizia della volontà sovrana di evitare esecuzioni capitali circolava già nei giorni seguenti alla fucilazione degli insorti di Palermo. La torinese “Gazzetta del popolo” nel numero del 9 maggio 1860, riprendendo una corrispondenza del “Corriere mercantile”, scriveva: “Dicesi che il re non voleva che fossero fucilati i prigionieri della Gancia eppure lo furono perché così volle il direttore di polizia”, cioè Salvatore Maniscalco. Ultima osservazione: era necessario che Francesco II trasmettesse per telegramma la sua volontà alle autorità siciliane se l’avesse comunicata a Castelcicala al termine del consiglio di guerra, visto che il luogotenente vi aveva partecipato ed era rientrato a Palermo il giorno seguente?