di Maria Teresa de Sanctis
Riferire di fatti realmente accaduti sappiamo essere cosa non facile, soprattutto per un film. A seconda del punto di osservazione scelto cambia la prospettiva offrendoci aspetti della stessa realtà talvolta non sempre concordanti. Lo stesso accade, e forse ancora di più, quando ci si accinge a raccontare la biografia di qualcuno, sia che si tratti di narrativa o di linguaggio cinematografico.
E di un film biografico appunto qui si vuole parlare, di un entusiasmante “Bohemian rhapsody”, il racconto di un ragazzo di origine indiana: Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar, cresciuto a Bombay poi a Londra, discendente di un funzionario britannico negli anni Quaranta. Che diventa il Freddie Mercury che tutti conosciamo e amiamo, interpretato da un ottimo Rami Malek, bravissimo nel destreggiarsi con gli innumerevoli playback.
D’altronde, quando si ha un’estensione vocale di quattro ottave e mani magiche e ci si ritrova con ottimi compagni d’arte, si intuisce che non poteva andare diversamente. Iniziò a suonare il pianoforte a sette anni e a tredici entrò nella sua prima band, “The Hectics”, facendosi chiamare Freddie. Nel 1970, con gli amici Brian May, Roger Taylor e John Deacon, fondò quella che sarebbe poi diventata una delle più importanti rock band del secolo scorso.
I Queen, questo il nome della band scelto da Freddie, perché “molto regale e superbo, un nome forte, universale e immediato”. E immediato è anche il coinvolgimento della loro musica, quell’abbraccio emozionale che ti afferra e dentro al quale il tuo cuore pulsa insieme ai battiti del ritmo della band. Poco importa, non proprio ma dobbiamo accontentarci, che tu ti possa trovare ad un magnifico e storico concerto dal vivo a Wembley o seduto al cinema: la trepidazione, il coinvolgimento emotivo di quella grande musica è lo stesso, ovviamente, fatte le dovute distinzioni: beato chi ha potuto essere a quel concerto!
Una musica che avvolge, coinvolge, rende partecipi, include e non esclude, “una musica fatta da emarginati per gli emarginati”, così definisce la sua musica il protagonista
all’inizio del successo della band. È quell’abbraccio sempre desiderato, avuto prima dall’amore della sua vita, la dolce Mary che rimarrà sua grande amica per sempre, la brava Lucy Boynton, e cercato poi disperatamente nelle tante esperienze sessuali, prima di approdare ad una vera relazione sentimentale.
Un film che ci racconta delle inquietudini di un’anima che sente nella musica la sua vera ragione di vita, “sono nato per essere un performer”, dice Freddie. Che vuole far vivere la musica alla gente, una musica che abbraccia e che non ti fa sentire solo.
Che i personaggi potessero proprio essere perfettamente aderenti a quelli veri, anche fisicamente, è poca cosa. Quello che importa è che sia arrivato soprattutto il racconto dell’anima dell’artista, del suo incontro magico con i suoi compagni d’arte e di vita, del suo perdersi e ritrovarsi, del suo vivere per essere un performer per far vivere la musica alla gente. Un grande artista che ci ha fatto emozionare e continuerà a farlo con la sua musica.
Questa è la bellezza, sentirsi vivi e dentro un linguaggio comune che ci emoziona, ci avvolge e ci rende felici di esistere e magari capaci di migliorare il mondo, ma per fare questo occorre ancora del tempo. Come il protagonista ha dovuto perdersi per ritrovarsi, così forse il genere umano deve ancora toccare il fondo, e stiamo per farlo, per cominciare la risalita verso la costruzione di un mondo migliore.
Intanto godiamoci la bellezza, la bellezza dell’arte, sia essa musica, parola, poco importa: la bellezza, la gioia di sentire compiuta la nostra creazione e il nostro scopo nella vita quando riusciamo a far sì che gli altri ne godano e se ne sentano partecipi. E così non saremo mai soli.