di Vincenzo Pino
Si stenta a capire che siamo entrati un una fase nuova della comunicazione politica.
A quella in essere decenni fa, basata sulla comunicazione orale in cui prevalevano comizi, assembleee, spazi di prossimità occupati ed organizzati, da diffondere nel territorio in forma orale ma anche scritta (si ricordi la campagna di diffusione dell’Unità la domenica mattina), si è sostituita quella in cui era il mezzo televisivo a costituire il principale vettore informativo (e formativo) della pubblica opinione. Non solo attraverso la diffusione delle notizie ma anche con forme subliminali di orientamento ai valori ed ai comportamenti.
A partire dagli anni ’90, alle Tribune politiche in cui gli spazi erano proporzionali e garantiti alle diverse politiche, si sostituì la logica del maggioritario. In cui lo spazio di confronto assumeva la cadenza del “combattimento personale” nei talk show, ma anche nelle stesse campagne elettorali.
Tipici del periodo furono gli scontri finali tra i principali candidati leader come atto finale prima dell’esito del voto in cui i protagonisti si confrontavano in una sorta di arena in cui erano ammessi anche i colpi sotto la cintura. Le abilità non riguardavano solo i contenuti programmatici dei leader dei diversi schieramenti ma anche la capacità di produrre, attraverso il moltiplicatore televisivo, veri e propri “scoop “.
Basti ricordare la sortita di Berlusconi sull’abolizione dell’Imu nel finale di uno scontro con Prodi che non permetteva alcuna possibilità di replica. Il fermo immagine, si potrebbe definire, della campagna elettorale. Un capolavoro mediatico.
In quella fase, il giornalismo conservava ancora una funzione di intermediazione (e di mediazione) non tanto attraverso la forma scritta, ma con la gestione degli spazi di confronto. Erano le epoche di giornalisti come Santoro che aveva profondamente rinnovato il linguaggio del giornalismo passato prevalentemente dalla forma scritta a quella televisiva e che dava prestigio, visibilità e potere, a queste figure.
Anche questa forma di giornalismo è venuta sempre meno, non essendo stata capace di rinnovarsi nell’epoca in cui nuove forme di comunicazioni, agili, dirette, interattive, prendevano corpo.
L’eredità di Santoro, che sta soprattutto in “Piazza Pulita”, mostra ampiamente la corda: il tentativo di fondere linguaggio televisivo con quello tradizionale in forma scritta ha subito una debacle di proporzioni immani, vedi i fallimenti di Giordano e di Giannini in questo tentativo.
Possiamo dire che gli unici spazi significativi rimasti per il giornalismo politico, a livello di share, sono rappresentati da Di Martedì e da Otto e mezzo.
Qui si è realizzata una saldatura in cui il giornalismo televisivo offre uno spazio di presenza e di resistenza a quello più tradizionale, cercando di rafforzare il circuito della funzione della mediazione giornalistica stessa. Non a caso i maggiori protagonisti delle trasmissioni sono in genere i giornalisti stessi (stavolta in funzione di ospiti) chiamati ad interloquire con i politici come se fossero i detentori della pubblica opinione in ragione della forza che darebbe loro questo sodalizio.
Tipica testimonianza di questa operazione è stato l’assalto coordinato tra Floris, Franco e Giannini nei confronti di Renzi martedì passato (nella foto). Un giornalismo volto a riconquistare un ruolo politico grazie ai disastri di governo voleva continuare nella narrazione di una opposizione fatta anch’essa di disastri, di sbagli, inesistente, divisa nella sua principale espressione. E che si arroga il titolo di giudice della democrazia (Lei è legittimato ad opporsi a questo governo? Chiedeva Floris a Renzi). Anche per questi non esistono le regole democratiche, non esiste la libera espressione di iscritti ed elettori che fino a domenica hanno consegnato alla componente renziana un successo in Toscana pari ai due terzi dei voti.
Una pretesa antidemocratica, innanzitutto, ma anche una non conoscenza e una sottovalutazione del modo in cui si formi la pubblica opinione in questa fase. E che per molti versi ha disintermediato la funzione giornalistica.
Oggi più di 6 milioni di elettori non ricevono informazioni dai giornalisti, ma direttamente via social da Salvini, Di Maio, Renzi e altri politici. Interloquiscono quotidianamente tra loro in migliaia di gruppi. Hanno creato vere e proprie forme di comunità, e costituiscono i principali vettori e moltiplicatori delle idee politiche.
Si pensi che il M5S che è nato ed è cresciuto in aperta contrapposizione ai quotidiani e alle Tv. Lo stesso si può dire per la Lega ed in qualche modo per Renzi.
Se fossi un giornalista, una riflessione sul mio ruolo la farei. Soprattutto se uno come Renzi riesce ad elevare significativamente l’audience delle trasmissioni televisive (Martedì ha registrato l’8,2% di share).
O pensate di rappresentare l’opinione pubblica con presenze come Telese, Padellaro, Travaglio, Gomez, che rappresentano una quota di giornalismo pari al Quotidiano di Sassari?
Verrebbe voglia di chiedere a voi giornalisti, ogni tanto, ma chi vi dà la legittimità di denigrare un leader che ha avuto il 70% di voti congressuali nel suo Partito e che rappresenta oggi l’opposizione?
Ma ancora più importante, a volte, è la sensazione che a molti giornalisti non venga in mente che l’esistenza delle opposizioni al governo, più o meno grandi, più o meno rappresentative e più o meno forti numericamente, è condizione necessaria all’esistenza stessa della democrazia liberale. Democrazia liberale che è la sola a garantire l’indipendenza degli stessi giornalisti.