di Vincenzo Pino
La simbologia in politica conta, eccome. Nel regime costituzionale vigente la forze politiche si organizzano sulla base di programmi per raccogliere il consenso elettorale che dovrebbe dar luogo ad una maggioranza parlamentare capace di realizzare i programmi stessi nell’arco temporale della legislatura per la quale hanno ricevuto il mandato.
E per essere sottoposti, di regola alla scadenza naturale, alla verifica di quanto fatto nel corso della guida del governo, chiedendo la eventuale riconferma.
Quanto di tutto questo sia stato agito dal movimento pentastellato nel corso di questi mesi è storia recente.
La pretesa della leadership senza maggioranza parlamentare alla luce di una pretesa nascita di una terza repubblica dei cittadini, la minaccia sulle prerogative del Presidente della Repubblica scolpite nell’articolo 92 della Costituzione, la minaccia alla terzietà dell’apparato tecnico espressione della neutralità dello Stato e non dei desiderata dei governanti.
Sono questi i messaggi lanciati e veicolati in questi mesi. Danno la sensazione che la conquista del governo non sia un normale avvicendamento di rappresentanze democraticamente scelte ma l’inizio di una dominazione che voglia mettere in discussione le fondamenta dello Stato stesso per tentare di perpetuarsi al di là delle modalità e dei tempi previsti per l’azione di governo dall’ordinamento costituzionale, comprese le garanzie a difesa dell’ordinamento democratico.
Quello che, appunto, il movimento grillino si propone di cancellare, assumendo come riferimento le autocrazie turche o russe, basate su una democrazia monca e priva di possibili alternative. Ovvero, ottenuta mediante lo sconvolgimento dell’equilibrio dei poteri, la distruzione del senso critico e la stessa funzione dell’opposizione, e anche delle garanzie costituzionali a difesa di libertà e democrazia.
E da qui il controllo asfissiante dei media, la sottomissione della Magistratura, la persecuzione degli intellettuali e dei docenti, come avviene da quelle parti.
In Italia questo tentativo si è finora scontrato con le prerogative degli altri poteri su cui si regge l’equlibrio costituzionale dalla Presidenza della Repubblica, ai civil servant dello Stato, agli intellettuali che cominciano a mostrare segni di risveglio, dopo l’innamoramento e la fascinazione verso questo “preteso nuovo”.
Come pure con i media che mostrano finalmente qualche segno di resipiscenza , dopo un attacco forsennato di diversi anni contro il governo legittimo del paese e contro il leader del principale partito, espressione altrettanto legittima e verificata dal consenso interno e da quello Parlamentare.
Ed ora si scontra con il Parlamento che viene indicato nelle suggestioni di Grillo e Casaleggio come uno strumento vecchio e superato dalla democrazia diretta del web.
Diciamo la verità fino in fondo. L’attacco al Parlamento deriva dal fatto che i poteri del governo non sono quelli che si è tentato di far passare nell’immaginario collettivo e che esistono anche poteri del Parlamento che sono volti a garantire la rappresentanza generale in settori strategici.
Nella Rai, ad esempio, dove occorrono i due terzi della Commissione di Vigilanza per nominare il Presidente e dove la imposizione lottizzata di Foa rischia di toppare.
Ovvero nell’iter Parlamentare del cosidetto “decreto dignità”, dove Di Maio, dopo aver lanciato il proclama della rapida distruzione del jobs act ad opera del “governo del cambiamento” è costretto a sperare nelle modifiche parlamentari per limitare i danni che il suo affrettato decreto avevano combinato.
E così la riduzione a 24 mesi del tempo determinato non entrerà in vigore immediatamente ma solo dopo il 30 settembre o forse nel gennaio 2019 per cercare di arginare i lcenziamenti già partiti per scedenza dei contratti.
E ancora, per le assunzioni dove si prevede di prorogare stanziando da subito 300 milioni per il 2019, come fatto dal governo Gentiloni per il 2018, di fatto prorogando le assunzioni fatte con i contratti a tutele crescenti di cui al “famigerato” jobs act.
I pentastellati dovevano perciò smontare e cancellare il jobs act. Ed invece sono costretti a ricorrere ad esso, di corsa, per limitare i danni che l’azione governativa aveva fatto col loro decreto. Nonostante avessero mancato derubricato a “complotto” le previsioni debitamente anticipate dagli organismo tecnici, quali l’Inps, al momento dell’emenazione dello stesso.
Insomma, il “govern del cambiamento” finora non è riuscito a costruire nulla e ancora meno a “cambiare”, se non in peggio. L’equilibrio dei poteri regge. Ma non bisogna abbassare la guardia. Tra Tav, Tap, no vax… ne vedremo delle belle.
Infine, notizia più recente, il governo francese ha anticipato che, per quanto lo riguarda, non si fermano i cantieri della Tav che stanno operando sul proprio territorio. Se il governo italiano vuole bloccare l’opera si sappia che è sola.