di Pasquale Hamel
Centinaia di scritti e opuscoli a stampa che personaggi più o meno noti pubblicavano e diffondevano rischiando di incappare nelle maglie dell’occhiuta polizia borbonica, prepararono il terreno per la rivolta del ’48.
Fra questi scritti, uno dei più famosi, “Protesta del Popolo delle due Sicilie”, diffuso in forma anonima, ma di cui fu autore Luigi Settembrini – lo scrive lui stesso nella sua autobiografia “Ricordanze della mia vita” – venne stampato anonimo a Napoli, presso la tipografia Seguin, nella notte del 9 luglio 1847, e consegnato al nobile siciliano Ercole Lanza di Trabia e al borghese Giuseppe Del Re perché fosse diffuso nell’isola.
In esso, con un stile essenziale ma pungente, l’autore metteva alla gogna il governo borbonico denunciando le “piaghe miserevoli del Regno da non potersi guarire se non col ricorso alle armi”.
Particolare significativo che dà l’immagine del clima surriscaldato in cui viveva soprattutto la capitale siciliana, il fatto che quell’opuscolo fosse arrivato, in modo rocambolesco, direttamente nelle mani di re Ferdinando.
Trovandosi, infatti il corteo reale ad attraversare il Cassaro, uno sconosciuto, incurante del pericolo, ne lanciò addirittura una copia dentro la carrozza sulla quale viaggiava il sovrano con la consorte. Nonostante la polizia borbonica fosse prontamente intervenuta, di quello sconosciuto si persero le tracce, sfuggendo alla cattura grazie anche alla copertura dei tanti curiosi che facevano ala al passaggio dei sovrani.
Ne riportiamo alcune righe (NdR.) tratte dal sito “Nuovo Monitore Napoletano”
“Questo governo è un’immensa piramide, la cui base è fatta di birri e dai preti, la cima dal re; ogni impiegato, dall’usciere al ministro, dal soldato al generale, dal gendarme al ministro di polizia, dal prete al confessore del re, ogni scrivanuccio è despota spietato su quelli che gli sono soggetti; ed è vilissimo schiavo verso i suoi superiori. Onde chi non è tra gli oppressori si sente da ogni parte schiacciato dal peso della tirannia di mille ribaldi; e la pace, la libertà, le sostanze, la vita degli uomini onesti, dipendono dal capriccio, non dico del principe e di un ministro, ma di ogni impiagatello, di una baldracca, di una spia, di un birro, di un gesuita, di un prete…”.
“Scopriremo le nostre piaghe, narreremo i nostri dolori, che sono immensi, insopportabili, indicibili”, scriveva, rimarcando anche la sventura di essere costretti a ricorrere alla “suprema ragione delle armi”.
In copertina, foto tratta da Flickr. https://www.flickr.com/photos/70125105@N06/31638616206
FERDINANDO I DI BORBONE A VIA FORIA
Nella carrozza si vede re Ferdinando I di Borbone con il figlio, futuro Francesco I, ritratti in modo assolutamente somigliante, nonostante le piccole dimensioni, da Salvatore Fergola (Napoli 1796-Napoli 1874) nel quadro del 1821-1822 raffigurante l’ingresso a Napoli per Via Forìa del sovrano, all’altezza dell’Orto Botanico, incrocio con Via Michele Tenore.
Mostra in corso al Museo di Palazzo Zevallos a Napoli.
Nel testo, Luigi Settemrbini. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18175576
Mi permetto di aggiungere a quanto scritto dal professor Hamel poche parole tratte da Giacinto de’ Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Roma, Tipografia Salviuxxi, 1863, vol. I, pp.119, ricordando che il de Sivo fu apologeta del regime borbonico:
[La polizia] era invisa pe’ Gendarmi: ve n’era di buoni e mali, come da per tutto, ma i mali eran troppi; i più baldanzosi, dispotici, veniali, avean soprattutto nelle provincie organati abusi e furti, con faccia quasi legale. […] Più odiata era la polizia per quei suoi bassi adepti detti uomini di “fiducia”, cui il popolo corrompendo a dileggio appellava “feroci”. Questi avean soldo misero, e talvolta nulla; e avendo a mangiare e tener casa e mogli e figli, si davano a ogni reo mestiere, a stender la mano in tutte guise; e per estorquer danari eran “feroci”.
Mi scuso per il refuso: naturalmente l’editore del libro di de Sivo si chiamava “Salviucci”