di Gabriele Bonafede
Se c’è uno scrittore siciliano apprezzato per la grande capacità di comunicare un patto sotteso tra cinismo e ironia, questi è Roberto Alajmo. Ecco che, il suo ultimo romanzo “L’estate del ‘78”, che non è un romanzo ma un’indagine, stupisce. E riceve meritato successo.
Stupisce, innanzitutto, l’argomento. Che è molto, direi estremamente, intimo. Si capisce ben presto che è un argomento nel quale il cinismo è difficile da mantenere. L’ironia ha spazi ancora più ristretti, se non impossibili. Argomento forse presente in altre sue pubblicazioni, in maniera velata, in dosi omeopatiche, ma mai esplicite, mai a soggetto così conclamato.
Di più, “L’estate del ‘78”, edito da Sellerio, non è una finzione, tranne in un paio di dettagli riguardanti i nomi dei genitori. È invece un racconto del vissuto, in particolare del proprio vissuto e nel momento crono-topico più doloroso della propria vita.
Cosa rara, almeno così esplicitamente e direttamente, nello stile dell’autore e di altri scrittori così. Riferimenti biografici ce ne sono, per sua stessa ammissione, in altri suoi. Ma questo è il racconto di un trauma, “del” trauma che ha segnato la sua vita e quella della sua famiglia. Opere autobiografiche ce ne sono tante, ma qui traspare qualcosa di più.
Alajmo non ha paura di raccontare e di pubblicare il proprio dramma familiare. E dovendo approcciarsi a questo tema “da cinico”, almeno per nomea e persino per repertoriale autoconvinzione, lo fa cercando di rimanere in equilibrio sul sottile filo che c’è tra cronaca distaccata e inevitabile emozione. Riuscendoci. In un seducente crescendo dalla casella numero zero a quella di destinazione.
Parte, appunto, dalla casella più complessa ad attrarre il lettore. Tanto che le prime pagine potrebbero sembrare esclusivamente introduttive: fatti interessanti in sé solo fino a un certo punto. Se un nuovo autore lo proponesse, le prime pagine, ma solo le prime, non smuoverebbero molto. Benché instillino il tarlo della curiosità, sembrano drammi vissuti da tante e tante altre persone, e che sono rivelati con una consapevolezza che sfiora la cronaca giornaliera, pur nel chiaro stile d’autore, pur nelle ricercate considerazioni su vita, morte, felicità.
Oppure, sembrano godibili solo ai tanti affetti da “malattia del Grande Fratello”, ossia un voyerismo morboso di chi vuole sbirciare sulle vicende personali di personaggi più o meno famosi. Chi lo approccia in questo senso ha sbagliato romanzo.
Perché questa sensazione iniziale, a un altrettanto cinico lettore, svanisce presto: anche all’avvocato del diavolo. Non solo perché Alajmo sa scrivere in maniera tanto scettica quanto compromettente già nelle primissime, quotidiane, battute.
Ma perché, piano piano, anzi ben presto, la sua stessa paura svanisce. Prima ancora che ci si accorga di una scrittura da terapia psicoanalitica, da introspezione di un qualsiasi paziente che segue indicazioni e prescrizioni del proprio medico, diventa in qualche modo un libro “magico”. Magico, tra virgolette, ché la magia non è altro che uno degli aspetti della vera letteratura: comunicare, qui, catartico afflato al lettore.
Il “romanzo”, così, cresce e si sviluppa presto incantevole. E vien fuori una dolcezza nello scrivere che Alajmo non aveva mai manifestato, o per lo meno, che non era stato facile intuire o trovare in altri suoi libri per quanto eccellenti e coinvolgenti.
Finalmente, Alajmo non ha paura di essere poetico. E per giunta, con la dose giusta di poesia. Che sta tutta nel chiaroscuro e nel ritmo. Grazie Roberto.
In copertina, foto di Angelo Macaluso.
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