Quali sono gli effettivi programmi delle tre coalizioni: contraddizioni e realtà, passato e futuro
di Vincenzo Pino
C’è un’anima nei programmi elettorali. Quella del centro destra è percepibile immediatamente dalla flat-tax. Cioè uno spostamento di risorse verso i ceti più ricchi necessariamente accoppiato con lo svuotamento sostanziale dello stato sociale e dei programmi di sviluppo e di investimenti. Insomma il proseguimento sotto altre forme del de-finanziamento di scuola, sanità, servizi pubblici, con il blocco dei contratti nel pubblico impiego e tra le forze di sicurezza. E tuttavia senza risanare il deficit e i conti dell’Italia. Anzi.
Si tratta di una pericolosa estensione di ciò che abbiamo conosciuto nei governi a trazione tremontiana e che hanno condotto allo sfascio del sistema delle finanze pubbliche, recuperate solo con la cura montiana.
C’è anche il tema dell’immigrazione, ormai avvolto dal peggiore ambientamento razzista. Un modo di operare che non può che portare a disastri di novecentesca memoria. Nella totale discrasia tra Berlusconi e Salvini, c’è anche il goffo tentativo di ammantare di “sovranismo” ciò che è invece autolesionismo antieuropeo (se non fascismo allo stato puro), come dimostra l’atteggiamento d’approvazione per la folle avventura della Brexit: un’operazione che si sta rivelando catastrofica.
Il centrodestra, insomma, non ha le idee chiare sull’Europa, e sugli stessi pilastri della cultura “liberista” che dovrebbe essere propria di un centrodestra. Idee confuse e avventure nel baratro, con programmi contrastanti persino al proprio interno, persino nei valori fondanti dei “conservatori”, per dirla all’inglese.
Il programma dei 5 stelle appare ricavato dalla pretesa dell’indistinto, dal mare magnum compreso tra tutto e contrario di tutto, e quindi con palesi contraddizioni su tutti i temi. Lì ognuno può trovare quello che vuole: Euro sì, no, jobs act si, no, vaccini si, no, Fornero si, no. Un grande gioco ad eccitare fantasie particolaristiche tipiche del partito pigliatutto che sa di non dover rendere conto a nessuno di quanto promette. Nemmeno ai propri candidati.
Più che un vero e proprio programma di governo, quello dei 5 stelle, sembra uno scambio con l’elettorato basato sulle pulsioni passionali. Delle quali Grillo possiede le chiavi, bloccando qualsiasi approdo verso la definizione e la fattibilità di un’azione di governo ogni volta che Di Maio timidamente ci prova.
Il programma del Pd, a differenza, ha una storia di successo alle spalle e quindi poggia su solide fondamenta. Investimenti mirati e di rapida efficacia per lo sviluppo, utilizzo della leva fiscale volto a riequilibrare l’accesso e la remunerazione del lavoro attraverso gli 80 euro per le fasce medio basse, predisposizione delle risorse per la definizione contrattuale del pubblico impiego ed i settori afferenti (scuola, sanità, forze dell’ordine) bloccati da un decennio.
Su questo solco si innesta la conferma di questi istituti e la loro estensione verso i settori lavorativi non coperti (gli 80 euro alle partite Iva), e la definizione di obiettivi credibili sul piano della lotta alla disoccupazione: da abbattere della stessa quantità della precedente legislatura, sia nei numeri aggregati che in quelli dell’area giovanile (ereditata al 44%, riportata oggi al 32 e da ridimensionare al 20 nell’arco della prossima legislatura) con un incremento di un ulteriore milione di posti di lavoro.
E qui un ulteriore passaggio, quello di rendere più conveniente l’assunzione a tempo indeterminato rispetto a quella a tempo determinato. Ed ancora rispetto alla condizione giovanile un fondo per la garanzia pensionistica per chi non ha adeguatamente maturato contributi a tal fine.
A ben vedere, il programma Pd è un grande patto intergenerazionale. Perché lo sforzo concentrato su quest’area di popolazione è volto a ripristinare anche prospettive future per la possibile condizione familiare con l’allargamento degli ottanta euro a favore di ogni figlio a carico under 18 e alle partite Iva con reddito inferiore ai 26mila euro annui.
Ed inoltre quattrocento euro al mese per ogni figlio nei primi tre anni di vita, al quale aggiungere sei mesi di corrispettivo (sotto forma di carta dei servizi) per il congedo di maternità, anche se la mamma torna al lavoro. Il Pd, insomma, investe su lavoro, giovani e formazione, e sulle famiglie, in maniera equilibrata e coraggiosa con coperture finanziarie certe ed adeguate.
E se poi si connette questa scelta con quella del reddito di inserimento in Italia e con quella del grande piano di investimenti sociali in Europa a firma Prodi, possiamo quanto meno immaginare che Italia possiamo ritrovare tra 5 anni. Un paese più ricco ed insieme più equilibrato che fa del lavoro il suo perno centrale che realizza l’equilibrio pensionistico attraverso la crescita del monte contributivo.
Ci chiediamo, di fronte a tutto questo impianto logico-conseguenziale, cosa possa essere quel reddito di cittadinanza che esalta l’inerzia più che la ricerca lavorativa? Chi finanzierà le pensioni di domani? O avremo anche il reddito da condizione pensionistica e da contributi non versati?
Il programma del Pd è coraggioso nel puntare sulle giovani generazioni. Il 4 marzo vedremo se i giovani risponderanno anche elettoralmente a questo investimento.