Tra il consenso ai leader politici e quello ai partiti ci sono discrepanze che rappresentano un ampio margine di crescita. Soprattutto per il Pd. L’opinione sulla situazione
di Vincenzo Pino
Quale è il peso elettorale del Pd per le imminenti elezioni politiche? Tra il 24 ed il 34%, elementare Watson.
Tra le rilevazioni sondaggistiche alcune meritano attenzione e considerazione perché le stesse si intrecciano con l’analisi dei flussi elettorali e con le aree di incertezza dell’elettorato analizzato nella sua dinamica.
Si distinguono in questo campo la Società Italiana di Studi Elettorali che colloca l’attuale consistenza del Pd al 32% e gli studi dell’Istituto Piepoli e, non meno interessanti, quelli della Euromedia Research della Ghisleri che lo danno rispettivamente al 26 ed al 24% a poche settimane dal voto.
Per questi ultimi due istituti viene definita un’area di incertezza dell’8% di elettori che nel 2013 hanno votato Pd e che non sono ancora sicuri di riconfermare il loro voto.
Le ragioni per un regresso evidente possono essere molteplici: la dolorosa scissione (che però non si è tradotta in voto per i fuoriusciti), la campagna mediatica di giornali e Tv che scoraggia i sostenitori del Pd e di Renzi in particolare (non ci scordiamo che circa il 40% degli elettori matura la sua opinione politica in tV), qualche delusione particolare che al momento non si è in grado di individuare.
Tra le forze politiche il Pd è l’unico ad avere questo potenziale bacino di crescita mentre tutte le altre forze politiche sembrano aver esaurito il loro spazio di crescita (FI è ferma al 2% in questa classifica). Insomma tutti i partiti risultano ben strutturati e riconoscibili, mentre il Pd risente ancora di una mancata e precisa connotazione che frenerebbe il flusso elettorale a suo favore.
E qui la campagna elettorale giocherà il suo ruolo. Ai nastri di partenza il Pd sembrerebbe svantaggiato e i media fanno a gara per definirne la connotazione di sicuro perdente nella sfida a tre ma questo è un dato del tutto aleatorio se si esaminano alcuni altri fattori.
Uno. Il grado di consenso che riscuote l’azione e la compagine di governo attestata al 43% percentuale mai registrata dai governi uscenti a fine legislatura e mediamente superiore al 15% di tutti gli altri.
C’è da dire su questo che tra quelli che convergono sul giudizio positivo sul governo in carica vi sono il 50% di elettori di Leu il 25% di quelli di Forza Italia ed in parte questi possono trasformarsi in consenso dove i ministri saranno schierati.
Due. Il livello di consenso di Gentiloni quale leader di governo che si attesta al 44%, accompagnato da Franceschini al 45%, da Minniti Padoan e del Rio che volano su queste cifre e che costituiranno il valore aggiunto della sfida elettorale, come si diceva sopra.
Tre. Infine l’apprezzamento dei leader in quanto persone. Al primo posto sta Mattarella seguito da Gentiloni (43% + 4 ultimo mese) e la Bonino al 33% rilevata per la prima volta.
La convergenza con più Europa si dimostra di grande rilievo nella coalizione e ne può determinare una ulteriore spinta per il suo schieramento ma anche per il Pd (in generale gli effetti positivi hanno un effetto moltiplicatore non lineare).
Alla fine di questo anno tribolato l’unico dato certo è la perdita del 2,5% a favore di MdP (misero risultato per gli scissionisti) ma lo spazio che resta per riavvicinarsi alle cifre delle Europee e del Sì referendario è tutto aperto. Ed anche quello di conquistare e riconquistare consensi, da parte del Pd, oltre il recinto stretto degli ex elettori
“L’importante è che sia il Pd a governare non chi governi del Pd”. Se i militanti, che sono poi quelli che cercano realmente i voti, saranno conseguenti con questa notazione del segretario si spalancano praterie. Se si fa la conta tra renziani e non-renziani, le truppe del Pd avranno fatto quello che chiede l’apparato mediatico, il quale vede come il fumo negli occhi la vittoria del Pd del segretario Renzi e del premier Gentiloni.
Foto in copertina di di Hari-Peter Gauster tratta da unsplash.com
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