di Gabriele Bonafede
La sconfitta del centrosinistra alle elezioni regionali in Sicilia è stata tanto annunciata quanto evidente. In questi casi è doveroso che ognuno si prenda le sue responsabilità. Se da un lato le liste caldeggiate da Orlando “Arcipelago Sicilia- Movimento ei Territori” hanno avuto un flop impressionante (qui i dati impietosi), una vera catastrofe elettorale, è anche vero che c’è lo zampino di un PD siciliano completamente alla deriva.
La sequenza di errori, mancanza di incisività, di idee, di uomini concreti al comando, si è sommata a lotte intestine senza pari. Le liste Arcipelago Sicilia sono state difficilissime a formarsi e a sostenere. Per alcuni, anche a causa di un “fuoco amico” fin dalla loro composizione. E ci sono state situazioni imbarazzanti laddove, come a Messina, ha pesato la vicenda-Crocetta.
Ma non solo nella provincia di Messina o in quella di Siracusa. Liste debolissime anche a Trapani e a Agrigento, e in altre province tranne, forse, a Palermo.
Con una campagna elettorale in salita, già a causa di un’esperienza di governo Crocetta non proprio esaltante, il PD siciliano è arrivato alla tornata elettorale con ulteriori, sconsiderate convinzioni e una serie di errori spaventosi.
Certo, le motivazioni di questa sconfitta sono da individuare in una storia lunga, molto lunga. È noto che in Sicilia il centrosinistra, compresa la sinistra più netta, non ha mai avuto più di un 30-32% di bacino elettorale. Terra tradizionalista, democristiana, centrista e tendente a destra, la Sicilia ha sempre guardato alla sinistra e anche al centrosinistra con molta sfiducia. Mai un candidato di sinistra o centrosinistra è stato eletto sul campo quale presidente, se si eccettua l’elezione di Rosario Crocetta nel 2012, e anche lì con meno di un terzo dei voti e con successive alleanze di vario genere per mantenere il mandato.
Ma in questa tornata elettorale altri errori si sono aggiunti, in una serie che ha dell’incredibile. Errori che partono alcune settimane, se non mesi, prima della scadenza elettorale. Errori dove la direzione regionale del PD ha una grande fetta di responsabilità.
Un PD regionale che in Sicilia, va detto, è moto poco “renziano”. E di generazione e modi del tutto particolari. È ovvio che abbiano pesato le lacerazioni interne al PD a scala nazionale, oltre che regionale. Ma ha pesato soprattutto un certo modo, ormai consolidato da tempo, di “fare politica”, che politica non è. Sembra piuttosto un metodo per riprodurre se stessi.
Il primo errore è da onda lunga, negativa s’intende. Il PD, per lo meno in Sicilia, non ha più una “scuola di politica”, una struttura, un sistema di preparazione alla politica. Né ha un sistema di scelta dei propri politici e candidati di punta basato sulle capacità. Tutt’altro. Mediocri tra i mediocri sono spesso scelti per compiti politici che provocano un grigiore senza pari, persino tra coloro i quali accedono alla Camera o al Senato.
Mettendo da parte taluni impresentabili per motivi vari, riferendosi a passati recenti, non c’è comunque una qualità, sia generale che nei singoli. Sia pure con alcune presenze incoraggianti, ci si ritrova spesso con candidati e risorse umane di limitate capacità anche in posti-chiave. Ma fosse tutto qui, sarebbe già qualcosa.
In primavera 2017, il primo di una serie di errori. E cioè di assecondare la propria stessa deriva non riuscendo a proporre una propria politica autonoma e un candidato del PD per le elezioni di Palermo. Accodandosi, come se nulla fosse, a Orlando. Da qui, l’errore successivo, ossia quello di sognare un “modello Palermo” per l’intera Sicilia. Cosa completamente fuori da ogni logica, come si è visto.
Ma non basta. Il candidato alla presidenza di una regione così importante, quella che gode della più vasta autonomia e che è anche la più grande per popolazione ed estensione a sud di Firenze, andava scelto con accuratezza almeno entro maggio. Chiunque esso sia, persino il meno adatto allo scopo tra i papabili.
La proposta di Bianco poteva andare bene, e probabilmente era meglio di quanto scelto alla fine, per lo meno dal punto di vista della notorietà e dell’esperienza politica. Le primarie erano la migliore soluzione, nonostante i problemi di allora. Ma, nisba. La dirigenza regionale del PD ha continuato a navigare a vista, sperando nel miracolo del “modello Palermo”, nell’accodarsi a Orlando, nel continuare a riprodurre se stessi nel coacervo di capi bastone d’antica “esperienza”.
Un “ognun per sé, e qualcun altro per tutti”, che si è affermato e consolidato nel periodo pre-elettorale e persino durante la campagna elettorale.
La scelta di un candidato di buone capacità fuori dalle stanze politiche è stata una scelta giusta sotto certi punti di vista. Nefasta per altri. Apprezzatissimo sul piano personale e quale tecnico, era ovvio però che Micari non avesse la benché minima esperienza politica e soprattutto la benché minima incisività nel modo di porsi, nel modo di parlare, nell’ambito dell’oratoria, tuttavia necessaria per essere eletto o per lo meno affermarsi parzialmente. Anche adesso, nel mondo dei social, gli avversari hanno avuto buon gioco, soprattutto per quanto riguarda Musumeci, che sa fare bene-benissimo un comizio, per lo meno al popolo dei suoi.
Per giunta, la scelta è stata tardiva, molto tardiva. Fuori dal tempo massimo, e cioè dopo il rientro dalle vacanze di agosto. Una follia. Pagata a caro prezzo.
Ma non è finita qui. Come detto, il PD regionale, pur ispirandosi in qualche modo alle “qualità” della balena bianca democristiana, non ha saputo compattarsi al momento della competizione elettorale. Come invece faceva la Dc dei tempi migliori. Ognuno ha tirato dalla sua parte, portando acqua al proprio mulino, favorendo il voto disgiunto e la regressione generale di tutta un’area politica. E con un centro dirigenziale regionale praticamente a capo di nulla.
Veti incrociati sin dalla formazione delle liste, e poi ben addentro alla campagna elettorale, si sono verificati sottotraccia e infine in maniera palese, alla luce del giorno, persino nei “santini” pubblicitari.
Tutto ciò dimostra come il segretario regionale del PD siciliano sia lungi dal fornire un elemento carismatico e d’unione. Sia lungi dall’avere le capacità di attrarre oltre che di “comporre” un panorama politico interno al partito. Nessun carisma, nessuna attrattività, nemmeno una frase che si possa ricordare quale grande intuizione, sia pure a scala locale. Zero babà.
Ma dare tutta la “colpa” a Fausto Raciti non è che una maniera “sovietica” e poco utile di risolvere i problemi per lo meno tattici del PD e del centrosinistra in Sicilia. Tra l’altro, qui non si tratta di colpa. Se un centrosinistra vuole sopravvivere e proiettarsi con idee utili alla crescita sociale, culturale ed economica della Sicilia, pur in una congiuntura sfavorevole a scala europea e planetaria, deve crescere esso stesso.
Il primo passo è mettere in discussione, oltre al segretario regionale, tutta la dirigenza regionale. Per far questo, la stessa dovrebbe dimettersi in massa e indire un nuovo congresso, con forze nuove, soprattutto generazionalmente e culturalmente. Perché laddove Renzi sembra riuscito a “rottamare” a scala nazionale, ciò non è punto avvenuto in Sicilia. Dove la sinistra più salottiera d’Europa continua a imperversare insieme ad arrugginiti ingranaggi di correnti e “capi-bastone”. Quasi tutti in dissenso con Renzi.
Va invece scelto, innanzitutto, un segretario regionale di grandi, evidenti, straordinarie capacità. E vanno ricercate, attratte, recuperate, le forze di giovani e giovanissime generazioni in un progetto di crescita politica a lungo termine.
Un progetto che scaldi l’interesse per un futuro migliore e che ponga i successi democratici, i successi del mondo occidentale, al centro dell’azione politica. Ciò è ancora più importante in una terra di frontiera come la Sicilia, immersa in sensibilissime congiunture internazionali. Declinando questo progetto politico in proposte concrete per il progresso sociale e culturale, soprattutto comuni e condivise con i cittadini siciliani, e oltre.