di Daniele Billitteri
Sono andato al cinema a vedere il concerto di David Gilmour a Pompei, quaranta anni dopo la spettacolare performance dei Pink Floyd nell’anfiteatro romano. Il limitato coinvolgimento emotivo dovuto alla differenza tra concerto dal vivo e concerto sullo schermo, ha – tuttavia – spianato la strada a un flusso ininterrotto di pensieri. Non solo di ricordi, attenzione. Ma di pensieri che, dopo tutto sono ricordi metabolizzati.
Io sono grossomodo coevo della leggendaria band inglese e il fatto che mi piacciano costituisce l’aspetto infinitamente minore di quello che suscitano in me. Così è sorto il problema della nostalgia ma, grazie al cielo, ho scoperto che me ne sento immune, che le emozioni sono di altro genere. Nessuna nostalgia canaglia, nessun rimpianto, nessun rimorso. E, a dispetto di quello organico, il mio metabolismo emozionale funziona alla perfezione e ieri sera ne ho avuto la conferma.
Avevo meno di vent’anni ai tempi di Atom, Earth, Mother e di Dark Side Of The Moon. Avevo bisogno di bandiere, di modelli, di viali della speranza, di ottimismo della volontà. Non mi perdevo nella disfida di Barletta tra Beatles e Rolling Stones. Avevo il Vietnam nella testa e le magnifiche sorti e progressive nel cuore.
E quando presi contatto con i Pink Floyd mi colpi subito una loro caratteristica peculiare che non ritrovai nel mare magnum dei contemporanei, musicalmente parlando. Panorama ricchissimo, esorbitante, pieno di mostri sacri dai Genesis, ai Led Zeppelin, Dai King Crimson ai Deep Purple, dai Black Sabbath, agli Emerson, Like & Palmer, dai Jethro Tull ai Doors. Tanto per dire.
Ma i Pink parlavano un’altra lingua. E la insegnavano. Per come ero io allora, nella loro produzione trovavo una sorta di etica progressiva che scaturisce possente quando la musica imbocca la via sinfonica all’orizzonte degli eventi. Atom e Dark Side sembrano il racconto di un’epopea, sono maestosi come se volessero dirci che sta a noi scegliere se questo cammino porta al futuro o all’estinzione. Un accordo in minore che si allarga in uno maggiore per tornare in minore, è un cuore che pulsta e dà il senso di questa marcia potente.
Ne sono passati di anni, quasi mezzo secolo. Di errori ne ho commessi quanti ne volete. Non credo più in molte delle cose in cui credevo allora. Ma se dovessi tornare a quando ci credevo, sono certo che ci crederei di nuovo.
Perché l’importante è essere contemporanei a se stessi, camminare col mondo procedendo verso la fine del cammino dandole le spalle, per non perdere il senso della provenienza. Ma senza viverlo come una catena. Un lungo filo di identità che ci salva dalla nostalgia e ci consegna al presente.
I Pink Floyd hanno fatto diventare musica una sveglia, un registratore di cassa, un elicottero da guerra, il rumore di una guerra, i rumori domestici del quotidiano, quelli della noiosa vita piccolo borghese.
Questo ci hanno detto: che il mondo va ascoltato, che non bisogna chiudere gli occhi né le orecchie.
Sono certo che tra duecento anni li sentiranno ancora come noi adesso troviamo nella Stagioni di Vivaldi l’amore e la potenza della Natura. Altro che nostalgia. E cibo dell’anima. E non scade.