di Gabriele Bonafede
Sono passati ben venticinque anni dalla strage di Capaci nella quale morì Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta. E oggi è sempre più importante, fondamentale, doveroso e illuminante ricordare Giovanni Falcone. Ma lo è se si abbandona la facile retorica e si va ai ricordi e agli insegnamenti. Possibilmente di prima mano, e meglio se sono le cose fatte, dette e scritte da Giovanni Falcone stesso e chi lo ha conosciuto.
I protagonisti, i testimoni culturali e politici, diventano sempre più anziani. Ed è tra coloro i quali hanno oggi la saggezza e soprattutto la cognizione del periodo storico e politico in cui morì Giovanni Falcone che va rintracciata la memoria.
Per questo motivo, le parole raccolte da Giovanni Parisi (*), allora deputato all’ARS e tra i politici principali del Pci-Pds siciliano, sono particolarmente istruttive per il presente e il futuro delle nuove generazioni. Soprattutto se accompagnate da alcune righe a firma di Falcone stesso.
Così, Giovanni Parisi, oggi 81 anni e con lucido ricordo: “Nel ricordare la tremenda strage di Capaci, vorrei partire da Falcone e Rizzo. Due magistrati, amici fra di loro. Aldo Rizzo era mio amico e lo spinsi alla politica. Fu eletto al Parlamento nazionale e poi diventò Sindaco di Palermo. Falcone che conoscevo, ma con il quale non avevo rapporti stretti, anche lui invitato alla politica dai socialisti, rifiutò e continuò la sua preziosa, approfondita attività contro la mafia. Lasciò una grande eredità di documentazione e di metodi nella lotta alla mafia. Per questo il 23 Maggio 1992 fu massacrato con la moglie e la scorta sull’autostrada a Capaci. Per questo lo ricordiamo con grande dolore e ammirazione.”
E ancora, il decano siciliano della politica di sinistra anni ‘80 e ‘90, continua con emozione appena trattenuta: “Nel pomeriggio del 23 maggio 1992 ero in autostrada, tornavo da Roma da una riunione al CC del Pci. Alle 17,58 vidi una nuvola di fumo. Pensai ad un incidente alla cementeria. ‘No’, mi disse qualcuno che tornava da laggiù, ‘è stato un attentato’. ‘A chi’ chiesi, ‘pare al giudice Falcone’”.
“Bloccammo la macchina. Il traffico era immobilizzato. Mi avviai a piedi. Arrivai al cratere-fornace che aveva inghiottito Falcone e i suoi. Tornai a Palermo con un amico che mi vide e girammo da Montelepre. Arrivai a casa. Erano le 19.30. Baci ai mia moglie e i bambini e presi la mia macchina per andare al Civico. Folla di giornalisti e reporter. Si diceva che era morto. Mi abbracciai con Sergio Mattarella. Sapevamo che bisognava ripartire di nuovo come dopo l’assassinio di Piersanti.”
Qui, il messaggio a firma di Giovanni Falcone ricevuto da Giovanni Parisi nel 1988, in occasione dell’attentato dell’Addaura. Poche parole di un uomo che parlava poco e lavorava molto. Nelle sue parole, una profezia sul mondo di oggi a venticinque anni di distanza.
“Caro onorevole, la ringrazio per la stima e la solidarietà dimostratami in questa disgraziata vicenda in cui si sarebbero volute strumentalizzare effettive carenze nell’apparato repressivo statale per ridurre tutto a beghe tra giudici o peggio a una specie di confronto politico non meglio precisato, mandato avanti da giudizi asserviti alle segreterie dei partiti. In vicende come questa è in gioco la stessa essenza della democrazia che è un patrimonio di tutti e che non si presta a strumentalizzazioni di sorta. Cordialmente, Giovanni Falcone”
Profetico, Falcone. Se si vuole trovare la profezia. Infatti, la democrazia è oggi in grave pericolo. Soprattutto a causa della rinnovata popolarità di chi attacca la democrazia in Sicilia e nel mondo, propagandando populismi e governi autoritari.
(*) Consigliere al Comune di Palermo dal 1970 al 1975. Deputato all’Assemblea Regionale dal 1981 al 1996 (IX, X e XI legislatura). Dal 16-07-1992 al 26-05-1993 Assessore Regionale Cooperazione, commercio, artigianato e pesca (46° Governo della Regione Siciliana).