di Giovanni Rosciglione
Pensavo che, a Palermo, lo “schiavo” a fosse in fondo alla catena: che fosse l’ultimo anello. Almeno uno di questi “schiavi”, lo conosco da più di venti anni. L’ho visto crescere e da bambino di 4/5 anni diventare uomo. Ma lo “schiavo”, l’ultimo, è in molti posti di Palermo. Chi bruno, chi biondo, del biondo ramato ereditato in svevi ibridati; chi con gli occhi azzurri o di un marrone chiaro, oppure perfettamente scuri. Spesso serrati come in una smorfia di fatica.
Un fisico che, in molti “ultimi”, siano essi snelli o tozzi, è venuto su muscoloso, nodoso e curvo. Piegato.
Hanno spesso un incedere elastico, quasi saltellante. Alcuni, una voce roca per le 50 o 60 sigarette quotidiane fumate da quando è stato dato il permesso di comprarle. Le frasi sono brevi e smozzicate. Spesso si capiscono solo se si parla bene il palermitano di strada.
Uno, che conosco meglio, è lì ogni giorno, dalle 7/8 di mattina alla mezzanotte, a presidiare uno dei semafori più battuti di Palermo.
Vende frutta anche a cassette o in confezioni. Logisticamente gode dell’appoggio di una “Lapa” (moto ape) malmessa. E utilizza lo spazio di uno scarrozzo di un’impresa dell’araldica di settore fallita, per sedersi su una vecchia poltrona a mangiare qualcosa a pranzo.
Più volte io – di antelucane abitudini – l’ho sorpreso ancora dormiente su una poltroncina generosamente messa a disposizione da due o tre esercizi commerciali vicini. Ha passato lì tutta la notte.
Sino a qualche anno fa lo accompagnava anche il padre (una mia amica, che lo ha avuto alunno per un anno, mi ha detto che ha una mezza dozzina di fratelli).
Ora sul posto di lavoro è solo. “Mio padre – mi ha comunicato in una delle nostre velocissime discussioni tra un verde e un rosso – ora ha un altro posto!”.
Io penso al Job act…, ai voucher e alla faccia della Camusso.
Solo, per modo di dire, perché, in questi luoghi medievali di Palermo, la mattina vengono i “Padroni” a controllare quantità e qualità della frutta, incassare i profitti del giorno precedente e, magari con l’aiuto di qualche mezzo braccio, confezionare le fragole, le pesche, l’uva, i fichidindia. Tutto rigorosamente e igienicamente sull’asfalto di uno spazio lasciato libero da un mancato intervento urbanistico, da un ex distributore di benzina, da uno scarrozzo che non funziona più, o da un esercizio commerciale o semplicemente in un incrocio più largo del solito.
I “Padroni” più che altro guardano, controllano. Dopo tanti anni parlano con qualcuno dei clienti più assidui: sembrano in confidenza con la zona. Alle volte si abbracciano e si baciano con abitanti e passanti.
Ben piazzati fisicamente, taglio capelli neomelodico, tatuaggi della tribù e vestiario rigorosamente griffato (Hogan, N&S, Armani, Ray Ban a specchio). Vanno e vengono con la sicurezza di chi non ha nulla da rimproverarsi.
Spartaco (lo chiamerò così, lo schiavo) non mi sembra abbia coscienza della sua condizione ed è felice se qualche shampista di zona ogni tanto gli offre un caffè tra una mèche e un magistrale camuffamento di ricrescita. Pensavo fosse l’ultimo – come dicevo – della medievale catena. Fino ad oggi.
Stamane sono al solito angolo in attesa del verde, lui bussa ai finestrini delle auto che si fermano (la maggior parte sono SUV). Accanto a me c’è un ragazzo – l’età di Spartaco – dalla pelle di mogano lucido e dagli occhi brillanti. Bengala?
Tiene in mano l’asta col tergicristallo del lavavetri.
Spartaco gli si avvicina e gli dice “riccà tinn’agghiri: io ha travagghiari. U capisti? Vatinni!” (Da qui te ne devi andare, io devo lavorare, capito? Vattene!).
Il tono mi sorprende: non grida, ma è duro, è cattivo, è deciso.
Lui si avvicina al finestrino di un’altra auto e il lavavetri mi guarda. Io gli faccio un segno di comprensione: una smorfia, come a dire “ma che vuole questo?”. E il bengalese risponde con la stessa smorfia.
È verde, passo la strada. Come di regola, edicola, farmacia e panificio. Ritorno e il bengalese al semaforo non c’è più.
La nostra società, quella della nostra bella e infelice città, ha raggiunto vertici inimmaginabili nell’evoluzione della struttura piramidale del modello medievale/mafioso/familistico che ancora ci governa.
I vecchio medioevo, partendo dal sovrano incoronato da Dio, era arrivato sino ai valvassini e ai servi della gleba. Poi – come si dice oggi – in un modo o nell’altro un certo ascensore sociale si era mosso.
Noi – quasi isolando in un acceleratore di particelle tipo CERN – siamo arrivati ai valvassinini. Abbiamo trovato la particella di Dio. Abbiamo stabilito il primato della nanosocietà. Dell’invisibile che è parte del grande. Da noi bisogna stare attenti perché si può diventare più ultimo dell’ultimo.
Sino all’infinito. Affidandoci ad un’etica quantica. E io pensavo che Spartaco fosse l’ultimo. E non lo era…
In copertina, una “Lapa”, ovvero moto Ape, decorata a carretto siciliano con figure di storie popolari ispirate a medioevo, ovvero quelle del “cunto” e dei pupi siciliani. Foto di Gabriele Bonafede
Acuto e radiografico. E mi sembra particolarmente triste, nel giorno in cui la mafia torna a uccidere.