di Pasquale Hamel
Di Tricsino, nome partorito dalla fervida mente del cavaliere Aldo, c’era molto da dire a cominciare proprio da quel soprannome – ‘ngiuria, come si usa dire – che scolpiva la sua particolare fisicità. Era alto quanto bastava da superare la gran parte della gente del Paese ma, quel suo gigantismo, non trovava riscontro in un corpo adeguato che invece appariva esile come una canna al vento.
Immagino, ma non ci posso giurare, che quel nome, anche tenendo conto della persona a cui era stato affibbiato, corrispondesse all’italico “grissino”, proprio quello, lungo e stretto. Ma non è detto, perché, ripensando al modo di comportarsi del nostro spilungone, tutto compreso com’era a impicciarsi in faccende che non lo riguardavano, poteva essere una variante di “tredicino”, termine col quale dalle nostre parti si indica tutta quella gente che, senza averne “né arte né parte”, si immischia in affari che non lo riguardano.
Purtroppo per noi, avendo lasciato da tempo il nostro mondo chi avrebbe potuto darci qualche dritta in merito, non ci resta che accontentarci di quel che sappiamo. Ed invece più proficuamente dedicare qualche riga alle vicende che lo resero degno di ricordo fra i nostri compaesani nella Terra di Pirandello.
Di Tricsino, scapolo per scelta di vita, ma anche su questo qualche dubbio si è fatto strada, si dicevano cose strane. Alla visita di leva era stato infatti riformato, e non solo per la sua fragile condizione fisica ma, e la voce per carità di patria circolava sottotraccia, anche perché qualcosa forse non andava nella sua condizione d’uomo.
No. Non pensate avesse preferenze che allora erano considerate così gravi da dover subire un’ingiusta condanna all’emarginazione. Ma per il suo sproporzionato organo genitale, dicevano. Una vera “indecenza” che, per innato senso del pudore, lo costringeva a indossare brache di molte taglie superiori a quella che le sue esili gambe e il suo girovita da ballerina avrebbero richiesto. Il problema che l’assillava non gli impediva però che si concedesse qualche divagazione. Anzi.
Naturalmente cose senza impegno, magari un po’ lontane dal Paese, quasi sempre sarebbero accadute a Caltabellotta, per evitare i fastidiosi mormorii della gente. Ma non divaghiamo e torniamo alla disavventura, per che tale deve essere considerata, in cui incorse il nostro Tricsino.
Raccontavano i vecchi, molti di essi testimoni oculari di quanto accadde, che quella volta Tricsino, per soddisfare le sue faccende materiali, piuttosto che prendere la strada della bella cittadina di montagna dove trovava rifugio e conforto, avesse deciso di fare tutto, con discrezione sì, ma in casa. E pure, alla grande. D’altra parte, che poteva temere? L’abitazione era collocata in una posizione tale da impedire ad occhi poco riguardosi la possibilità di soddisfare inopportune curiosità.
Fu così che contattò due gradevoli cortigiane, una molto giovane ed una di mezza età. E diede loro appuntamento a casa nell’ora in cui la maggior parte della gente, sfiancata dal caldo dell’estate, era abbandonata al riposino pomeridiano. La camera con l’enorme lettone, con le lenzuola bianche di bucato accolse, dunque, Vincenzina e ‘Ngelica, questi i nomi di convenienza delle due donne. E Tricsino, con gli occhi di fuori ed i sangue che gli bolliva, se le guardò ammirato. Pregustando gioie inenarrabili, soddisfatto di avere fatto la scelta giusta.
Per sfizio e malizia, volle spogliarsi per primo offrendo allo sguardo delle ospiti l’ammirevole strumento. E proprio lì accadde l’inghippo: un bisogno impellente lo costrinse infatti a raggiungere il bagno. Per quanto avvenne dopo potrebbe dirsi che “l’occasione fa l’uomo ladro”, anche se in questo caso piuttosto che l’uomo bisogna indicar la donna. Dunque, proprio la più anziana delle due gradite ospiti, parlo di ‘Ngelica, con gesto fulmineo afferrò i lunghi pantaloni di Tricsino, che giacevano abbandonati su di una poltrona, e “senza dire né ai né bai” si precipitò fuori portandosi dietro il bottino. Si può immaginare lo sconforto e la rabbia di Tricsino, venuto fuori dal bagno pochi attimi dopo, nel constatare di essere stato beffato.
Uno sconforto che si tradusse in rabbia quando si ricordò che nella tasca dei pantaloni si trovava la pensione ritirata la mattina precedente.
Pur non essendo Napoleone del 5 maggio, Tricsino “fu come un baleno”, lanciandosi all’inseguimento della ladra che aveva già guadagnato un bel vantaggio. “Latra, latra”, gridava il nostro. Ma la ladra, tenendo stretto il malloppo, aumentava la distanza.
D’un tratto però l’inseguimento si arrestò. Fu il derubato a fermarsi. Si rese conto, infatti, di essersi precipitato per strada nudo dalla cintola in giù e che, in questo modo, si offriva agli sguardi ora indignati ora sfottenti della gente, mentre il suo enorme coso pendeva penosamente. La storia finì così.
Per la cronaca, Tricsino i suoi soldi non li rivide. E, sommandosi la beffa al danno, pare che abbia rimediato una bella denuncia penale per l’ignominioso reato di “atti osceni in luogo pubblico”.
In copertina, immagine tratta da Wikipedia. Ritratto di Giacomo Casanova di Anton Raphael Mengs – Historia n°763 – Juillet 2010, page 25, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11305854